Pubblichiamo le parole di Andrea Tavernati sull'ultima opera di Davide Puccini, "Il fondo e l'onda", edita per Nomos edizioni.
È difficile dire se ne Il fondo e l’onda, ultima fatica poetica di Davide Puccini, prevalga il movimento programmatico dalla superficie, dall’onda, verso il fondo, o viceversa. Il tema classico della memoria, o meglio, dell’oscillante presenza dei ricordi, assume, nella poesia di Puccini un taglio inquietante e drammatico, quanto più l’autore si sforzi di dissimulare questo aspetto dietro un dettato piano e colloquiale, un andamento cantabile, legato al verso classico, ritmato e rimato, che spesso si piega all’ironia e all’autoironia. Aspetto drammatico che è rappresentato dalla lotta incessante tra volontà di recupero e rischio di perdita, sicché Il fondo e l’onda ricorda alla lontana la Biblioteca di Fozio, un catalogo che ha tanto più valore perché è un catalogo di cose perdute, le quali aleggiano in un barlume di sopravvivenza proprio perché il catalogo esiste.
Senonché, se la Biblioteca di Fozio è un catalogo involontario di relitti, quello di Puccini è mosso da una volontà blandamente salvifica, mai apertamente dichiarata, ma non per questo meno convinta che le “cose leggere e vaganti”, per dirla alla Saba, abbiano un loro intimo e profondo valore, e pertanto vadano oggettivamente salvate. Ciò è tanto più evidente nella sezione centrale e più lunga del libro, quella dedicata ai Giochi del tempo che fu, che non è solo una rievocazione dei serissimi trastulli nei quali si cimentava il bambino Davide Puccini, ma un libretto di istruzioni e un manuale di ludotecnica consegnato ai posteri, nella speranza che in un futuro magari neanche tanto lontano –in questa bizzarra epoca di vintage e revival- possano anche tornare in voga, non come curiosità da museo però, ma come patrimonio emotivo e morale (/...che la forza dovesse penetrare/ in mezzo alla bellezza mi sembrava/ ingiusto e incomprensibile/ e per la prepotenza/ senza nessuna giustificazione/...in riferimento al gioco della trottola). E qui colpisce la sistematicità della poesia didascalica, degna di un grande classico come Lucrezio o il Virgilio delle Georgiche, che alterna suggerimenti pratici e descrizioni ai ricordi personali (L’Aquilone:/...Il nostro cuore era appeso lassù/ quasi a perdita d’occhio/ trasportato sopra un cocchio dorato./). Ma sempre senza tradire quella vena ostinatamente sorridente e quella lievità che fa parte della tempra morale e stilistica di Puccini.
Il quale rimane sul crinale tra serietà d’intenti e mozartiana incapacità di prendersi troppo sul serio anche quando il discorso si fa più personale, entrando nel campo delle proustiane intermittenze del cuore. E qui affiorano naturalmente le persone, i maestri dei Debiti, e poi i Vicini e gli Amici, sezioni che non pretendono di delineare né un ambiente né un’epoca, ma delle singole umanità, traguardate attraverso il velo del tempo - Il fascista era piccolo e cattivo/ (o lo era stato, così si diceva:/ ormai un ometto magro, rinsecchito,/ incapace di nuocere ad un bimbo.)/ - e l’inevitabile deformazione del ricordo soggettivo e talvolta l’ombra del rimpianto: /...La vita ci ha purtroppo allontanati,/ la morte ci ha divisi senza appello./. Ma tant’è: anche quello che noi ricordiamo fa parte della realtà, se non della verità, e quindi il nostro frammento di specchio con il quale guardiamo immagini incomplete, è quel poco che rimane, un’altra forma di relitto degno di essere ricordato. E non solo come fatto personale, ma come emblema di un rapporto emotivo tra l’esperienza della persona incontrata e il poeta –in questo veramente un fratello di tutti- nel quale ognuno può, per analogia, “riconoscere i suoi” come diceva Montale: un invito autentico ad aver cura del proprio passato personale come patrimonio della propria umanità.
Ma forse il cuore più profondo del libro sta nelle due poesie racchiuse nella sezione Tra passato e presente, che rimano con la citazione proustiana dal Tempo ritrovato posta in esergo al libro e che ammonisce sul valore extratemporale del ricordo, “qualcosa che, comune al passato remoto quanto al presente, è molto più essenziale di entrambi.” Qualcosa che può emergere dal fondo: Forse bisogna andare nel profondo:/ il segno del potere di mio padre/ che piaceva a mia madre/ (Edipo, gelosia)./” e che diventa maieutica in diretta, atto interpretativo del proprio essere e, in quanto tale, fondante dell’essere stesso (“noi siamo quello che ricordiamo” diceva Luzi). Allora ricordare perché per tanto tempo si è odiato il vino e quanta fatica si è fatta per andare oltre non è evocazione di una rimozione, che non c’è mai stata, ma presa di coscienza di una crescita interiore.
Così come il ricordo del trattamento riservato a un montaliano osso di seppia, è il segno che fa /...sfogare un istinto creativo/ oscuro e insopprimibile/ che avrebbe poi trovato/ soggetto meno puro ed elegante,/ storte sillabe e secche di parole./ metafora della vocazione poetica rispecchiantesi peraltro nella fascinazione di una semplice biglia dai petali multicolori: /...e la curiosità intellettuale/ di sapere per mezzo di ragione / come fosse possibile il miracolo / nella concreta prassi,/ si univa ad un piacere incomprensibile./
Perché alla fine poi rimane il mistero di questa meraviglia, di questa capacità tutta ed esclusivamente umana di farsi stupire dalle cose, di farsi impressionare da dettagli, che gli dei stessi troverebbero insignificanti, ma che per gli uomini, creature mortali, diventano elementi centrali di una persistenza, e quindi di un’essenza.