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Camera sul vuoto, recensione a cura di Andrea Tavernati


Bruno Galluccio - Camera sul vuoto - Einaudi - 2022


Qualche anno fa, quando incontrai Bruno Galluccio, in occasione della sua partecipazione al Festival Internazionale di Poesia Europa in Versi, gli dissi che secondo me mancava ancora, nel panorama della poesia italiana contemporanea, una testualità capace di essere all’altezza della nuova visione della realtà offerta dalla scienza, e dalla fisica in particolare. Non tanto una poesia che ne raccontasse le conquiste, ma che fosse in grado di creare un linguaggio coerente con tale nuova realtà, così diversa da quella percepita dai nostri cinque sensi. Un linguaggio rivoluzionario e rivoluzionato, che tanto più proprio la poesia sarebbe la migliore candidata a realizzare, date le sue sorprendenti -ma poi non tanto- affinità con il pensiero scientifico. Che proprio quell’edizione del Festival, dedicato al rapporto tra poesia e scienza, si proponeva di scandagliare.

Affermavo anche che il candidato migliore a realizzare tale “unificazione delle forze” potesse essere uno scienziato-poeta, più che un poeta-scienziato. Qualcuno, cioè, che potesse far leva su una autentica e solida dimestichezza con le discipline della ricerca per tradurne i contenuti in un rinnovamento della scrittura, grazie alla piena padronanza degli strumenti della poesia.

Oggi Bruno Galluccio, con il suo nuovo libro, Camera sul vuoto, fa un passo avanti importante in questa direzione.

Che non si possa prescindere da una lettura della realtà “more geometrico” o, per meglio dire, “more scientifico” è un dato di fatto affermato perentoriamente nei testi iniziali, e su cui non vale neanche la pena soffermarsi.

L’aspetto più interessante è come il libro ci catapulti senza remore nell’abisso dello spartiacque gnoseologico che la scienza ci impone ogni giorno: “usciamo nell’aria fresca dopo gli esperimenti / prendiamo in carico le forme del tempo presente / una presenza che ci medica // nuove reazioni nella chimica di un cervello / nuovi legami nelle reti cerebrali / quando scopri relazioni inattese // li portiamo a spasso come uno straniero…” posta a conclusione della quinta sezione e quasi al centro esatto del libro (p.60) questa poesia ci pone di fronte a un impasse emblematico, “al meccanismo che gira a vuoto, la transizione che si inceppa”.

Chi di noi non ha letto il racconto della cosmogonia o dell’interazione fra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo messi in scena dai migliori divulgatori scientifici, rimanendo increduli e a bocca aperta? Chi non sa, perché ci è stato detto, che tutte le novità che fanno ormai parte del nostro quotidiano, come quelle che probabilmente lo informeranno domani, dagli smartphone ai navigatori satellitari, dal web al digitale, dalla realtà aumentata a quella virtuale e al metaverso, non sarebbero possibili senza la scoperta del bosone di Higgs, delle onde gravitazionali e di tanti altri passi avanti della fisica sperimentale?

Eppure, a dispetto di tutto ciò, il nostro quotidiano rimane legato a una esperienza fatta di carne, sangue ed emozioni, una esperienza maledettamente newtoniana, in cui a ogni causa segue un effetto, in cui il gatto è morto se lo investo ed è vivo se freno in tempo, in cui due particelle restano connesse fra loro se possono vedersi, toccarsi, parlare…

Bruno Galluccio, che è fisico, vive contemporaneamente al di là e al di qua di questo confine e usa la poesia come un corridoio spazio-temporale per mettere in comunicazione i due diversi piani, ben cosciente del pericolo dell’autoinganno, della costruzione di una metafisica dell’immaginario in luogo di una metafisica tradizionale.

Perciò non si lascia irrretire dalle pur affascinanti ipotesi legate al multiverso, ai mondi paralleli e ai facili tuffi dentro i buchi neri per comparire in un’altra più o meno consolatoria dimensione dell’essere. Egli, nelle 9 sezioni del libro e nei 99 testi presentati -numeri casuali?- indaga tutta la frizione fra una conoscenza “esoterica” e una quotidianità che continua ad essere abitata dal dolore, dal tempo che passa, dall’ingiustizia, dal caso e dall’incomprensibilità.

La predilezione per il verso lungo, per l’andamento antiretorico, piano e prosastico, per l'enjambement come forma mentis, alterna due differenti forme di ductus: la prima accosta immagini differenti, apparentemente slegate fra loro, ciascuna contenuta in due-tre versi dall’andamento assertivo. Qui la distanza fra le metafore sprigiona una sorta di “entanglement quantistico” che spinge il lettore a identificare un percorso eterodosso, un cortocircuito inusitato fra significante e significato, che pure determina una nebulosa di senso: non è accaduto niente eppure è come / se la città respirasse il mondo si fosse frazionato / è come se tu camminassi ancora per queste strade // nel silenzio degli avi restano grandi illustrazioni / ci sono vetrate e sillabe che vengono ricomposte e pesate // l’essere stati in disparte non significa / non aver attraversato il tempo /…. (p.54)

Nella seconda i testi sono costruiti con una sintassi più articolata e di più ampio respiro, con un frequente ricorso alla paratassi. Sono i testi più emozionali, quelli che maggiormente entrano nel vivo della condizione umana e in cui le metafore e le immagini scientifiche hanno come punto di riferimento la realtà sensibile, scoprendo tutta la nostra finitezza e inadeguatezza al mondo che noi stessi andiamo a ridefinire: trovare nella tua cornice presente il mio passato / e nel quadro che nemmeno tu conosci / navigare tra le isole che so di te /….e allora sondo la foresta / delle frasi-gesti le circonvoluzioni / aggirando per salvare i nostri due mondi / e salvo infine un’idea / mentre non sei più rinchiusa china /… (p.106).

Sono soprattutto le sezioni centrali ad accendere i riflettori su questi aspetti: il punto di vista dello scienziato si alterna continuamente a quello dell’uomo “comune”, esacerbando il male di vivere: non basta più il sospiro attraverso la notte / che risale dai nostri gangli più interni / sperando che l’altro senta / né il desiderio affacciato alle finestre /verso la luna aspettando che rifletta // arriva l’uso creativo di punti e linee inventato da Morse… (p.47)

Tuttavia la parola è la prima complice nel manifestarsi di questa condizione: come i fenomeni si dispongono ad essere riconoscibili nel momento in cui la nostra ricerca suscita la loro “vanità”, così sono le parole a dare un volto alle emozioni che proviamo e a renderle oggettive, comunicabili. A farle esistere, in fin dei conti. Sicché anche lo schermo di un computer popolato di caratteri, la rete dei messaggi intersecati nell’etere definiscono i confini dell’essere come fenomeno di relazione, non di una identità monadica: …qui la distanza si riversa in righe / e piccole mani segnalano / dove potrebbe vivere la chiarezza // scorrono le lettere in messaggi / quella incerta cosa nel certo contorno dello schermo / come un sogno o la sua sete preventiva / le miniere mandano segnali // dal lato opposto del silicio/… (p.90). È questo il legame profondo tra poesia e scienza? Quale parola può meglio rendere tangibile la fluidità della materia e il relativismo dei rapporti tra tutte le cose, da taluni tanto aborrito? L’estrema precisione, il rigore della regola e insieme la più elevata mutabilità nel comporre incastri, sinestesie, fantasmi, sogni, associazioni indebite…

Se la fisica quantistica mette in discussione tutte le nozioni acquisite di tempo, spazio, esperienza, soggetto, allora ognuno di noi è vissuto da un se stesso che non ha età, è nell'istantaneo, assorto in un continuo spaziale. Un fermento incessante, che talora lampeggia sulla superficie della vita esteriore, svelando un senso diverso. È quel turbinare che concorre alla completezza del sentire, che rifonda la parola come qualcosa di nuovo, di inascoltato, che esula dalla logica corrente, senza un principio e una fine.

La poesia di pagina 90 si chiude con una doppia domanda: era questo che cercavi? / e dove si sposta ora la vera partenza? / e con una domanda si chiude anche l’ultimo componimento del libro: in quali modi hai pronunciato la sua ultima vertigine?, dove il soggetto della frase è il desiderio. Se il vero compito dello scienziato, e l’aspirazione etica di ogni essere umano, è trovare risposte, Bruno Galluccio sa non solo che la ricerca non finisce mai, ma che spesso il senso di ciò che si trova rimane così incerto che si può dubitare coincida proprio con il nostro obiettivo iniziale. E se la hybris del nostro desiderio (di conoscenza, di potenza) è sempre dietro l'angolo, la sua traduzione in atto è condizionata dalla parola, da un pronunciarsi che non è solo uno strumento di espressione, ma la forma stessa del desiderio, dunque consustanziale al suo essere: un flusso ininterrotto, che prevede l’abolizione della punteggiatura e il travaso di immagini e tempi individuali e collettivi, come nell’allegoria della Temperanza, come nei temperamenti dell’alchimia, l’ava primordiale della scienza.

Ma il discorso non si chiude, le domande rimangono senza risposta, forse un giorno qualcuno le troverà, come recita un’altra poesia (p.124), ma saranno soltanto risposte parziali, e forse scopriremo che il gatto, nella scatola, non c’è mai stato.


Andrea Tavernati


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