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Maria Elena Blanco | Canto XXIII, Paradiso


Maria Elena Blanco

Poetessa, saggista e traduttrice, laureata in lingua e letteratura francese (Hunter College, New York) e letteratura spagnola e latinoamericana (Università di Parigi-Sorbona, Università di New York). Cubana, vive a Vienna ha risieduto in Argentina,Stati Uniti, Francia, Inghilterra, Cile, Kenya. Ha partecipato come ricercatrice e relatrice a simposi accademici in Europa e in America Latina. Per più di due decenni, ha lavorato come traduttrice presso varie sedi delle Nazioni Unite.


Canto XXIII, Paradiso (1-33)


Come l’augello, intra l’amate fronde,

posato al nido de’ suoi dolci nati

la notte che le cose ci nasconde,


che, per veder li aspetti disiati

e per trovar lo cibo onde li pasca,

in che gravi labor li sono aggrati,


previene il tempo in su aperta frasca,

e con ardente affetto il sole aspetta,

fiso guardando pur che l’alba nasca;


così la donna mia stava eretta

e attenta, rivolta inver’ la plaga

sotto la quale il sol mostra men fretta:


sì che, veggendola io sospesa e vaga,

fecimi qual è quei che disiando

altro vorria, e sperando s’appaga.


Ma poco fu tra uno e altro quando,

del mio attender, dico, e del vedere

lo ciel venir più e più rischiarando;


e Beatrice disse: «Ecco le schiere

del triunfo di Cristo e tutto ‘l frutto

ricolto del girar di queste spere!».


Pariemi che ‘l suo viso ardesse tutto,

e li occhi avea di letizia sì pieni,

che passarmen convien sanza costrutto.


Quale ne’ plenilunii sereni

Trivia ride tra le ninfe etterne

che dipingon lo ciel per tutti i seni,


vid’i’ sopra migliaia di lucerne

un sol che tutte quante l’accendea,

come fa ‘l nostro le viste superne;


e per la viva luce trasparea

la lucente sustanza tanto chiara

nel viso mio, che non la sostenea.




Commento:

Dante, La Divina Commedia: Paradiso, Canto XXIII

La parola e lo sguardo: agenti d'amore tra terra e cielo


Dopo aver attraversato i nove gironi dell'Inferno e le sette cornici del monte del Purgatorio, ed essere salito al settimo cielo del Paradiso, Dante, nell'ottavo cielo (Paradiso, Canto XXIII), sta per vedere realizzata la speranza di contemplare nuovamente Beatrice, come lei aveva annunciato a Virgilio all'inizio del viaggio dantesco (Inferno, Canto II).


In quel momento, Beatrice scese all'Inferno e chiese a Virgilio di aiutare Dante a superare la sua paura e di guidarlo attraverso tutte le fasi del male e del dolore affinché il suo spirito raggiungesse la chiarezza e la virtù necessarie per intravedere la luce accecante del Paradiso. Solo lì poteva trattenere lo sguardo di colei che in vita aveva visto solo per pochi istanti e di colei di cui era rimasto per sempre innamorato, al di là della morte. Sappiamo che anche Beatrice è mossa dall'amore per Dante, anche se per lei è già un amore divino, e userà la sua parola, e poi il suo sguardo, per condurre Dante al godimento di quell'amore.


La parola: Virgilio, Beatrice


Dice Beatrice a Virgilio nel Canto II dell'Inferno (vv. 65-72), quando Dante, spaventato, ha deciso di non continuare il suo viaggio di purificazione:


“Anda pues ve y con tu palabra ornada

y lo que es menester para ayudarle,


le auxilia tal que quede consolada.

Yo soy Beatriz, que oblígote a que andes;

de lugar vengo al que tornar ansío;


amor me mueve, que parlar me hace”.

(Trad. Úbeda*)


Da un lato, c'è “habla razonada” (trad. Pezuela*) o la “palabra ornada” (trad. Úbeda), la parola ornata -terrena, letterata- di Virgilio, che convince e guida Dante a perseverare nel suo compito, fungendo così da intermediario tra le due sfere che inquadrano lo spazio in cui si svolge il compito umano (terra e cielo); dall'altro lato, il parlare -celeste, beatificante- di Beatrice, anch'essa intermediaria, ma di voci sante, il cui scopo è avvicinare a sé il destinatario spirituale del suo amore, cioè la persona nella cui salvezza è impegnata: Dante.


Queste due parole -la letterata e la beatificante- renderanno possibile il nuovo scambio di sguardi che avviene tra Beatrice e Dante nel Canto XXIII del Paradiso, quando Dante, dopo aver assistito a tutte le miserie umane per mano della sua guida Virgilio, è stato sufficientemente istruito e purificato per poter vedere il volto di Beatrice circondato dalla luce splendente dell'Eden.


La parola di Dante è la voce poetica, quel sussurro di fondo come un basso ostinato, sordo ma attento, che insensibilmente, "in mezzo al cammino", sta tessendo il testo della Divina Commedia.


Lo sguardo: Beatrice, Dante

In tutta la Divina Commedia, il vedere, il guardare, lo sguardo, la visione sono sensi attivi e onnipresenti che si approfondiscono e si affinano man mano che il viaggiatore emerge dalle tenebre e si avvicina a una maggiore chiarezza, e a poco a poco sale attraverso stanze ancora più luminose fino a intravedere la luce abbagliante dell'Empireo.


Nel Canto XXIII del Paradiso, Beatrice è descritta come un uccello che attende con impazienza l'alba per “gozarse en la vista deseada” della sua “prole amada” (vv. 2-4, trad. Pezuela) - dei suoi protetti, qui: Dante-per dargli il nutrimento spirituale, guadagnato virtuosamente e faticosamente nel viaggio attraverso la sofferenza umana. Questo è “el fruto de ir por estas esferas recogido” (vv. 20-21, trad. Pezuela), come Dante lo raccolse in obbedienza ai suoi disegni. Lo sguardo di Beatrice è gioioso, imperioso, efficace.


Da parte sua, Dante intravede per la prima volta Beatrice come in una nuvola, velata ai suoi occhi: sa che lei è lì ma, poiché sembra ancora irraggiungibile, distoglie lo sguardo nonostante il suo intenso desiderio di vederla. Questa attesa virtuosa è ricompensata non appena il cielo si apre ed entra la luce, insieme alla parola di Beatrice e al suo sguardo. Ma “sus ojos de gozo eran tan llenos” (v. 23, trad. Pezuela) che Dante rimane momentaneamente muto. Dante cerca di contemplare il paesaggio glorioso che Beatrice gli mostra, ma “sufrirla mi vista no podía” (v. 33, trad. Pezuela): cioè, anche lui è accecato dal suo splendore. Allo stesso modo, la sua mente, “así, entre goces tales, más crecida” (vv. 43-44, trad. Úbeda), è offuscata.


L'immagine luminosa di Beatrice regna su tutti i sensi umani, che si spengono a intermittenza davanti a quella radiosità travolgente. Gli occhi di Dante non sono ancora convinti della beatitudine che gli viene offerta, o non si considerano ancora degni di affrontarla faccia a faccia. Lo sguardo di Dante davanti a Beatrice, e soprattutto davanti alle visioni che lei gli rivela, è sfuggente, discreto, umile: già intuisce che non deve avere fretta, che deve deporre ogni orgoglio o eccesso, che nella sua condizione umana la luce gli arriverà a scintille e che lo abbaglierà e accecherà ancora e ancora, prima e dopo aver sperimentato l’ultima redenzione, la visione della divinità in tutto il suo splendore e mistero.


Ma, ancora una volta, la parola e lo sguardo di Beatrice incoraggiano Dante a vederla finalmente in tutta la sua pienezza: “Los ojos abre, y ve cómo yo río, / pues has visto ya cosas que potente / te hacen ya soportar el riso mío” (vv. 46-48, trad. Pezuela). Di fronte a questo, Dante “estaba como aquel, que se resiente / de visión olvidada y que se ingenia / en vano en renovar dentro la mente” (vv. 49-51, trad. Úbeda). Anche se questo passaggio può avere altre letture parallele, per esempio a livello religioso, è per me uno dei momenti più commoventi del Canto XXIII del Paradiso dal punto di vista del percorso personale del poeta e dell'uomo Dante Alighieri: davanti allo sguardo presente di Beatrice emerge dal profondo dell'inconscio di Dante la visione dimenticata del primo incontro in vita, fuori dal Paradiso - cioè fuori dal testo - una visione che era riluttante a materializzarsi nella sua mente, ma che l'"invito" di Beatrice (“tan digna de mi amor” (vv. 52-53, trad. Pezuela): quell'effimero amore umano di Dante, troncato dalla precoce morte dell'amata) rende finalmente completa e ormai indelebile, nel testo, quella visione lontana, che sta per finire, e immortale, nel ricordo (vv. 52-54).


Quel ricordo rivive e riaffiora di nuovo nel Canto XXX del Paradiso (vv. 25-30) quando Dante è già nel cielo empireo con Beatrice:


Que como el sol achica ojo que trema,

así el recuerdo en mí del rostro santo

mi mente encoge hasta su acción extrema:


desde el día primero en que Dios quiso

que la viera en el mundo, hasta esta vista,

de ella mi canto fue siempre indiviso;

(Trad. Pezuela)


Anche se Beatrice tornerà al suo posto vicino a Dio, e il poeta "desisterà" dal poetare, una volta terminato il viaggio, l'impronta di quello sguardo che ha percorso lo spazio tra la terra e il cielo rimarrà iscritta nell'opera poetica (Paradiso, Canto XXX, vv. 31-33):


mas hora es bien que de seguir desista

más allá su belleza, poetizando,

cual tras último esfuerzo hace el artista.

(Trad. Pezuela)


Tra cielo e terra


Cinque secoli dopo Dante, Hölderlin risponderà affermativamente alla domanda sulla possibilità umana di "misurarsi con Dio" quando ciò avviene in quello spazio gentile tra cielo e terra che egli definisce "dimora poetica", un luogo ispirato dalla grazia, o dalla carità, o dall'amore, che sono aspetti della stessa purezza di cuore.


Nella Divina Commedia di Dante, Amore era già l'essenza “del poder y la potencia que las sendas abrió entre cielo y tierra”, come proclamato nel Canto XXIII del Paradiso (v.38, trad. Úbeda), e la parola e lo sguardo sono i doni che permettono agli esseri umani di gestire quello spazio in termini di riconoscimento delle proprie potenzialità e limiti e di identificazione con il divino.


Quella parola sorda e attenta e quello sguardo all'alto dal basso, Dante li trasforma in un'offerta: un testo essenziale per l'umanità.


María Elena Blanco



 


Dante, La divina comedia, Paraíso, Canto XXIII, versículos 1-33, traducción al español de Juan de la Pezuela, conde de Cheste.


CANTO XXIII


Cual ave quieta en la hojarasca, en donde

el nido abriga de su prole amada,

en la noche que toda cosa esconde,


por gozarse en su vista deseada,

y por ir a buscarles la pastura,

trabajo en que penoso no halla nada,


en el borde entreabierto al tiempo apura,

y con ansia impaciente aguarda el día,

fija espiando su primer blancura;


así atenta y de pie, la dueña mía

vuelta a la parte de los cielos era,

en la que el sol más lento el carro guía;


conque al verla suspensa en tal manera,

tornéme, como aquel que deseando

cierta cosa, se calma con la espera.


Mas pasó poco entre uno y otro cuando

(digo entre el esperar y el ver cumplido)

vi que el cielo veníase aclarando.


Y Beatrice: ―“Ve aquí de Cristo unido

el séquito triunfante y todo el fruto

de ir por estas esferas recogido”.


Su rostro al fuego aquí daba tributo,

y sus ojos de gozo eran tan llenos,

que más vale que yazca el labio enjuto.


Como en los plenilunios más serenos

Diana entre sus antelas ríe eternas

que dan color a los celestes senos,


vi yo, sobre millares de lucernas,

un Sol que a todas ellas encendía,

como el nuestro a las lámparas supernas.


Y por la viva lumbre entrefulgía

esa substancia lúcida, tan clara,

que sufrirla mi vista no podía.






Dante, La divina comedia: Paraíso, Canto XXIII

La palabra y la mirada: agentes del amor entre tierra y cielo




Tras recorrer los nueve círculos del Infierno y las siete cornisas del monte del Purgatorio, y ascender hasta el séptimo cielo del Paraíso, Dante, en el octavo cielo (Paraíso, Canto XXIII), está próximo a ver cumplida la esperanza de volver a contemplar a Beatriz, tal como ella anunció a Virgilio al comienzo de la travesía dantesca (Infierno, Canto II).


En aquel momento, Beatriz bajó hacia el Infierno y pidió a Virgilio que ayudase a Dante a vencer el miedo y lo condujera a través de todas las fases del mal y del dolor a fin de que su espíritu alcanzara la claridad y la virtud necesarias para vislumbrar la luz enceguecedora del Paraíso. Únicamente allí podría sostener la mirada de aquella que en vida vio por solo unos instantes y de la que quedó prendado para siempre, más allá de la muerte. Sabemos que a Beatriz también la mueve el amor por Dante, aunque para ella ya se trata del amor divino, y usará su palabra, y luego su mirada, para llevar a Dante al goce de ese amor.


La palabra: Virgilio, Beatriz


Dice Beatriz a Virgilio en el Canto II del Infierno (vv. 65-72), cuando Dante, atemorizado, ha decidido no continuar su viaje de purificación:


“Anda pues ve y con tu palabra ornada

y lo que es menester para ayudarle,


le auxilia tal que quede consolada.

Yo soy Beatriz, que oblígote a que andes;

de lugar vengo al que tornar ansío;


amor me mueve, que parlar me hace”.

(Trad. Úbeda*)


Por un lado, está el “habla razonada” (trad. Pezuela*) o la “palabra ornada” (trad. Úbeda), la parola ornata –terrenal, letrada– de Virgilio, que convence y orienta a Dante para que persevere en su cometido, haciendo así de intermediario entre las dos esferas que enmarcan el espacio en que se desenvuelve el quehacer humano (tierra y cielo); por el otro, el parlar –celestial, beatífico– de Beatriz, también intermediaria, pero de voces santas, cuyo fin es acercar hacia sí al receptor espiritual de su amor, es decir, a la persona en cuya salvación ella está empeñada: Dante.


Esas dos palabras –la letrada y la beatífica– harán posible el nuevo cruce de miradas que se da entre Beatriz y Dante en el Canto XXIII del Paraíso, cuando Dante, tras presenciar todas las miserias humanas de la mano de su guía Virgilio, se ha demostrado suficientemente aleccionado y purificado para poder ver el rostro de Beatriz rodeada de la luz resplandeciente del edén.


La palabra de Dante es la voz poética, ese susurro subyacente como un basso ostinato, sordo pero atento, que insensiblemente, “en medio del camino”, va urdiendo el texto de La divina comedia.


La mirada: Beatriz, Dante

En toda La divina comedia, el ver, el mirar, la mirada, la visión son sentidos activos y omnipresentes que se van profundizando y afinando a medida que el caminante va saliendo de las tinieblas y acercándose a una mayor claridad, y poco a poco subiendo por estancias aun más luminosas hasta vislumbrar la luz fulgurante del Empíreo.


En el Canto XXIII del Paraíso, Beatriz es descrita como un ave que espera impaciente la aurora para “gozarse en la vista deseada” de su “prole amada” (vv. 2-4, trad. Pezuela) –de sus protegidos, aquí: Dante– a fin de darle el alimento espiritual, ganado virtuosa y laboriosamente en la travesía por el sufrimiento humano. Ese es “el fruto de ir por estas esferas recogido” (vv. 20-21, trad. Pezuela), como lo recogió Dante obedeciendo a sus designios. La mirada de Beatriz es gozosa, imperiosa, eficaz.


Por su parte, Dante vislumbra primero a Beatriz como en una nube, velada a sus ojos: sabe que está ahí pero, como ella parece todavía inalcanzable, desvía su mirada pese a su intenso deseo de verla. Esa espera virtuosa es recompensada en cuanto se abre el cielo y entra la luz, junto con la palabra y la mirada de Beatriz. Pero “sus ojos de gozo eran tan llenos” (v. 23, trad. Pezuela) que Dante queda momentáneamente mudo. Dante trata de contemplar el paisaje glorioso que Beatriz le muestra, pero “sufrirla mi vista no podía” (v. 33, trad. Pezuela): es decir, también queda enceguecido por su fulgor. Asimismo, su mente, “así, entre goces tales, más crecida” (vv. 43-44, trad. Úbeda), queda obnubilada.


La imagen luminosa de Beatriz reina por sobre todos los sentidos humanos, que se apagan intermitentemente ante ese resplandor apabullante. Los ojos de Dante no se convencen aún de la dicha que les es ofrecida, o aún no se consideran dignos de enfrentarla cara a cara. La mirada de Dante ante Beatriz, y sobre todo ante las visiones que ella le va desvelando, es esquiva, discreta, humilde: intuye ya que no ha de precipitarse, que ha de deponer toda soberbia o desmesura, que en su condición humana la luz le llegará por chispazos y que lo encandilará y cegará una y otra vez, antes y después de experimentar la última salud, la visión de la divinidad en todo su esplendor y misterio.

Pero, una vez más, la palabra y la mirada de Beatriz alientan a Dante a verla finalmente a ella en toda su plenitud: “Los ojos abre, y ve cómo yo río, / pues has visto ya cosas que potente / te hacen ya soportar el riso mío” (vv. 46-48, trad. Pezuela). Ante ello, Dante “estaba como aquel, que se resiente / de visión olvidada y que se ingenia / en vano en renovar dentro la mente” (vv. 49-51, trad. Úbeda). Aunque este pasaje puede tener otras lecturas paralelas, por ejemplo en el plano religioso, es para mí uno de los momentos más emotivos del Canto XXIII del Paraíso desde la perspectiva de la trayectoria personal del poeta y del hombre Dante Alighieri: frente a la mirada presente de Beatriz surge del fondo del inconsciente de Dante la olvidada visión del primer encuentro en vida, fuera del Paraíso –es decir, fuera del texto–, una visión que se resistía a concretarse en su mente, pero que la “invitación” de Beatriz (“tan digna de mi amor” (vv. 52-53, trad. Pezuela): ese efímero amor humano de Dante, segado por la temprana muerte de su amada) hace que aquella trunca visión lejana se complete por fin y sea en adelante imborrable, en el texto, que ya llega a su fin, e inmortal, en la memoria (vv. 52-54).


Ese recuerdo revive y resurge nuevamente en el Canto XXX del Paraíso (vv. 25-30) cuando ya Dante está en el cielo Empíreo con Beatriz:


Que como el sol achica ojo que trema,

así el recuerdo en mí del rostro santo

mi mente encoge hasta su acción extrema:


desde el día primero en que Dios quiso

que la viera en el mundo, hasta esta vista,

de ella mi canto fue siempre indiviso;

(Trad. Pezuela)


Aunque Beatriz volverá a su escaño cerca de Dios, y el poeta “desistirá” de poetizar, una vez llegada a su fin la travesía, la impronta de esa mirada que recorrió el espacio entre tierra y cielo permanecerá inscrita en la obra poética (Paraíso, Canto XXX, vv. 31-33):

mas hora es bien que de seguir desista

más allá su belleza, poetizando,

cual tras último esfuerzo hace el artista.

(Trad. Pezuela)



Entre cielo y tierra


Cinco siglos después de Dante, Hölderlin respondería afirmativamente a la pregunta sobre la posibilidad humana de “medirse con Dios” cuando ello se diera en ese amable espacio entre cielo y tierra que él definió como “habitar poético”, lugar inspirado por la gracia, o la caridad, o el amor, que son aspectos de una misma pureza de corazón.


En La divina comedia de Dante, el Amor ya era la esencia “del poder y la potencia que las sendas abrió entre cielo y tierra”, como lo pregona el Canto XXIII del Paraíso (v.38, trad. Úbeda), y la palabra y la mirada son los dones que permiten a los humanos gestionar ese espacio en términos del reconocimiento de sus potencialidades y límites y de la identificación con lo divino.


Esa palabra sorda y atenta y esa mirada a lo alto desde lo más bajo, Dante las convierte en ofrenda: en un texto imprescindible para la humanidad.




María Elena Blanco

Marzo de 2021



*Traducciones utilizadas:

Dante, La divina comedia, traducción de Juan de la Pezuela y Ceballos, conde de Cheste, Editorial EDAF, Madrid, 2017.

Dante, La divina comedia, traducción de Julio Úbeda Maldonado, 2 tomos, Ediciones 29, Barcelona, 1996.


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