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Hughes Labrusse | Canto XXXIV, Inferno


Hughes Labrusse

Hughes Labrusse è figlio del romanziere Roger Labrusse, combattente della resistenza e attivista anticoloniale. Suo maestro è stato il filosofo Jean Beaufret, interprete di Heidegger che lo ha introdotto a Jean Guitton, esponente del pensiero cattolico, nominato, da papa Paolo VI, primo uditore laico al Concilio Vaticano II. Tradotto in molte lingue specie in Estremo Oriente, è responsabile dell’opera del poeta e traduttore francese André Pézard di cui legge la traduzione di due terzine del XXXIV canto dell’Inferno dell’edizione della Pleiade.


Leggerò nell'edizione della Pleiade della Divina Commedia di Dante, nel canto XXXIV, le due terzine terzine dell'Inferno, con la traduzione di André Pézard. (vv. 133-139)


Lo duca e io per quel cammino ascoso

intrammo a ritornar nel chiaro mondo;

e sanza cura aver d’alcun riposo,

salimmo sù, el primo e io secondo,

tanto ch’i’ vidi de le cose belle

che porta ’l ciel, per un pertugio tondo.

E quindi uscimmo a riveder le stelle.

Commento

Eccoci alla fine dell'Inferno, sulla via del Paradiso. Per questa strana via, Dante è nostro contemporaneo. È lui e non più Virgilio che ci accompagna attraverso le mostruosità infernali del XX secolo. Ora la siccità e la desolazione si diffondono più che mai sulla nostra terra devastata, dove il folle sogno di fondere l'uomo e la macchina sta distruggendo l'esistenza. Ma non possiamo dimenticare che, dove i pericoli più grandi ci minacciano, c'è anche una crescita di ciò che ci libera da essi. Potrebbe essere la promessa di un paradiso d'amore e di bellezza? Abbiamo bisogno di evocare l'Evangelista e la sua Apocalisse? Le stelle che Dante contemplava sono ancora nostre? Nell'Orbita del Sacro, il mondo non è mai in divenire, ma cambia. Il nostro tempo non è quello di un dio prossimo alla cenere, ma le cui braci bruciano già nel loro impulso verso un'altra stella, un altro grado di lettura poetica per ricondurci a quell'anello dantesco dove il nostro chiaroscuro brilla nel silenzio.


Je vais lire, dans La Divine Comédie de Dante, au chant XXXIV, les deux derniers tercets de l’Enfer.

133

En ce chemin cela nous nous frappâmes

Virgile et moi en quête du clair monde ;

Et sans prendre souci d’aucune pause,

136

Mon duc premier, moi suivant, nous gravîmes

Tant qu’enfin j’entrevis les choses belles

Luisant aux cieux, par une brèche ronde ;

139

Puis nous fûmes dehors ; face aux étoiles.

Commentaire

Nous voici à la fin de l’Enfer, en direction du Paradis. Par cet étrange cheminement, Dante est notre contemporain. C’est lui et non plus Virgile qui nous accompagne dans les monstruosités infernales du XXe siècle. Or sécheresse et désolation se répandent plus que jamais sur notre terre ravagée, là où le rêve fou de fusionner l’homme et la machine brise l’existence. Mais l’on ne saurait l’oublier, là où menacent les plus grands périls, là croît aussi ce qui nous en délivre. Serait-ce la promesse d’un Paradis d’amour et de beauté ? Nous faut-il convoquer l’évangéliste et son Apocalypse ? Les étoiles que Dante contemplait sont-elles encore les nôtres ? Dans l’orbe du sacré, le monde n’est jamais en devenir, mais en mutation. Notre époque ne serait-elle pas celle d’un dieu proche des cendres, mais dont les braises s’enflamment déjà dans leur élan vers une autre étoile, un autre degré de lecture poétique pour nous reconduire à cet anneau de Dante où rayonnera dans le silence notre clair-obscur.




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