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Il colore dell'oscurità


Una lettura profonda e ripetuta del titolo dell’ultima antologia poetica di Metin Cengiz, Il colore dell’oscurità (Lieto Colle, 2017) dice molto e bene dell’opera stessa, fondata su un continuo ossimoro, che mai separa ma sempre unisce, concetti e sensazioni per loro natura dicotomiche, in primis la guerra e l’amore.

Ma procediamo con ordine.

Tradotto dal turco da Laura Garavaglia, con la revisione ultima di Nicola Verderame, Il colore dell’oscurità si inserisce in un campo da gioco battuto ripetutamente, dove il rischio di scivolata dolorosa diviene una possibilità pressoché certa; perché quando il tema bellico viene sondato in chiave emozionale e soggettiva e l’elemento storico-realista si unisce a quello personale-intimista, l’allarme di pericolo banalità inizia a suonare con stridula acutezza.

Cengiz non solo non cade nella trappola, ma riuscendo ad aggirare l’ostacolo, lo trasforma nella base che permette al lettore di spiccare un salto in alto memorabile; perché leggendo i versi del poeta turco ci si sente catapultati fuori dalla tranquilla zona di comfort e proiettati in una lontananza d’abitudine che non consente, però, di rimanerne lontani. L’abilità dell’autore sta nell’avvicinare, attraverso l’universalità dell’amore (in senso lato), episodi di violenza (anch’essi in senso lato) geograficamente o culturalmente distanti, mostrandone l’intrensicità nel tessuto di ogni esistenza: La morte a Gaza è come un gioco da bambini/ è come mangiare pane e olive a colazione/è come l’amore dei giovani./La morte a Gaza è come una statua di bronzo/A cui guardano tutte le finestre.

C’è amore nella guerra e guerra nell’amore, sembra dirci continuamente Cenziz: anche l’oscurità ha un colore, il suo, che è appunto il colore dell’oscurità. Un chiasmo continuo, dunque, ad attraversare la raccolta, fortemente voluto e ricercato, anche sul piano stilistico-lessicale; un chiasmo costantemente ossimorico che si distende e trova pace solo nel grande iperonimo della parola in cui tutto riesce a essere inglobato con scongiurata calma. La parola non salva, non sempre almeno, ma può cambiare le carte in tavola e riempire di dolcezza la più tremenda delle torture, dando amore e dignità al torturato e morte al torturatore.

Ma non è tempo di piangersi addosso: La solitudine che tratteniamo è una noia immensa/perché fratello mio nemmeno tu ci sei. È tempo che la parola diventi azione, perché la poesia di Cengiz è una poesia civile, nonostante il suo intenso lirismo; perché la parola è azione. Un’azione che può ergersi anche contro la natura e la natura dell’uomo: Luce soffocata/Cortile in rovina/Piccioni che vanno e vengono/per abbeverarsi nello stagno/Aiutami o parola. Per questo il lettore è tirato direttamente in causa, in quanto uomo e in quanto fruitore della parola.

Una raccolta poetica straordinaria, dolce e violenta al tempo stesso, che disintegra con il potere della semplicità delle piccole cose, le assolutezze del male e del bene; una raccolta potente, come un’arma, come una primula, come un gesto, come una poesia.

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