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Fibre d'universo - Matteo Cristiano


La natura sublime, se stesso e un amore. Solo questi tre ingredienti mi sono stati dati per costruire Matteo Cristiano. Difficile azzeccare la giusta proporzione degli stessi, difficile spiegarvi in che ordine buttarli nel calderone: meglio allora seguire le indicazioni dell’autore, passo a passo, per sollevare il velo con discrezione e rivelare cosa si celi al di sotto.

RESPIRARE IL TRAMONTO

Ho rincorso senza fiato Il fiammeggiante bacio Del giorno colla notte, Per poter respirare I colori del tramonto. Sulla gelida coltre d'erba Soffiata dal mondo La mia pelle si fece verde, Il mio petto montagne, E il mio pensiero Fù l'aura delle nubi. Solo con lo sfondo Dell'immensità del cielo Si scorgono finiti I rami degl'alberi lontani. Ecco, il respiro si libera. Ascolta. S'empie il petto d'armonia, Del canto del lago Dei colori riflessi sulla roccia Della vita senza storia. La mia ombra è sparita. Solo il profondo celeste E astri e galassie e anime. Finalmente anche io Sono la Vita.

Respirare il tramonto è la narrazione di una visione, di un sogno diurno che guida il lettore dentro a un quadro romantico, dove la Natura è sola padrona. E’ in atto una metamorfosi tanto antica quanto misteriosa, in questo componimento: quella di un uomo col mondo che lo circonda. Un uomo che percepisce la vibrazione di ogni fibra di esistente dell’universo e ne carezza i movimenti impalpabili.

Parlare della natura in questi termini per mostrarne la sublimità al lettore è un gioco rischioso per qualsiasi poeta, perché giocato e rigiocato da migliaia di strateghi, che spesso son inciampati in schemi d’attacco già attuati. Scrivere poesia è una guerra costante contro la banalità del già detto e l’indicibilità del non detto. Per uscirne salvi bisognerebbe avere una prospettiva sulle cose quanto più possibile nuda e sincera: solo così sarà unica.

Io credo che Matteo, questa prospettiva, ce l’abbia e credo che vada al di là del desiderio di fondersi con la vita incessante che ci ospita su questo pianeta, quella che il poeta chiama “vita senza storia”. Credo che a un certo punto il coraggio di essere sincero con se stesso l’abbia avuta vinta e che la risposta alla domanda Perché stai scrivendo? se ne stia acquattata in una terzina, nel bel mezzo del componimento: “Solo con lo sfondo/ Dell'immensità del cielo/ Si scorgono finiti/ I rami degl'alberi lontani.”

Quell’immensità che ingenera sgomento è fonte di consapevolezza per il poeta: solo contro a uno sfondo infinito ci è dato di riconoscere i contorni delle cose finite. Così quell’anelito a essere Vita di Matteo mi sembra in realtà nascondere il dolce languore del riconoscersi in quelle dita di corteccia intrecciate contro il blu dell’orizzonte. La certezza dolce e pungente di poter guardare il cielo, ma di non poter mai esserne figlio, semmai sempre e creatura altra, destinata a sparire prima o poi tra le pieghe del tempo. Matteo sa di essere un uomo, che cammina in mezzo alla Vita e che della vita stessa costituisce una parte infinitesimale. È una consapevolezza che può condurlo alla perdita di se stesso, oppure può consentirgli di ritrovarsi e riconoscersi per ciò che necessariamente è, e con lui anche noi siamo: capaci di fingerci un tutto, ma coscienti di esserne una sola e minima particella.

FUNERE MERSIT ACERBO

Orari, pensieri, incontri. Per quanto ancora, Sarò in grado di vivere Il giorno che non c'è, Il secondo che ancora Deve venire? Così, appresso alla speranza Del senso, alla bellezza D'un filo nascosto Tracciato dal mio stesso pensiero, L'oscuro e morboso Finale vo' temendo, Non già perch'io tema la fine, Ma perché ancora non so Di quali dolori Gemerà l'alma mia. L'epigrafe del mio sepolcro È gia sbiadita, Solo da vicino si legge: Mi condannai all'antica ricerca; Qui giaccio dal giorno In cui volli conoscere Il mio nome. Da allora, La morte raggela Ogni respiro nel petto.

No, la vostra memoria non vi inganna, il titolo di questa poesia davvero vi ricorda qualcosa. Che sia il titolo del componimento di Carducci o il verso del Libro XI dell’Eneide, ci troviamo qui di fronte a un caso di acuta citazione. Perché Matteo riprende quest’espressione virgilianea? “In morte acerba travolse”, significa.

E’ interessante notare che in questo triangolo Virgilio-Carducci-Matteo nessuno dei tre attribuisce all’espressione un medesimo significato. E se per Carducci è un dolore personale e per Virgilio dolore pubblico, per Matteo Cristiano cos’è? Di quale morte sta parlando il nostro giovane poeta? Matteo mescola le due prospettive per estrarne un distillato unico: piange la sua morte ancora lontana e canta un’ansia primordiale, universale. “Non già perch'io tema la fine,/ Ma perché ancora non so/ Di quali dolori/ Gemerà l'alma mia.”

Un’ansia, dicevo, comune a qualsiasi uomo, quella cioè che si prova di fronte all’ignoto di una vita che non sappiamo quale direzione prenderà e dove subirà lo stop definitivo. La nostra vita. Una vita che si confonde nella morte, che è destinazione futura e inizio ormai passato, in un ciclo eterno di trasformazione d’atomi.

Mi condannai all'antica ricerca;/ Qui giaccio dal giorno/ In cui volli conoscere/ Il mio nome.” Questo giorno arcano mi si stampa nella mente come quel giorno in cui alla massa d’atomi di ciascuno di noi venne attribuito un nome, un’etichetta come a dire: ecco chi potresti essere.

Ma chi siamo davvero? Qui si cela l’eterna ricerca di cui parla Matteo Cristiano, quella corsa a ritroso verso un principio di cui siamo inconsapevoli, destinata a scontrarsi con la realtà che il tempo invece ci trascina avanti, verso la fine che si è originata ormai nella nostra stessa nascita. Ecco allora che quel “Funere mersit acerbo” più che morte, mi sembra essere nascita: un prologo che racchiude prematuramente in sé l’epilogo. Un senso che ancora dobbiamo capire.

MIA MADRE La vita rifratta filtrata Dal taschino sgualcito Del mio cappotto, Un prisma rosso sangue, Non si fece mai colore, mai luce, mai realtà; Le mie vere parole stentano Ad udirsi, una lingua ignota, Perduto l'idioma Dell'ingenua fanciullezza. L'intrigo profondo Di scura terra e legate radici Non s'illuda di poter Vivere all'ombra del suo tirso. V'è però lo sguardo Dei miei stessi occhi Fuor di me, divino legame Tra fibre d'universo, Che legge le mie pagine Senza sfogliarle. Delle donne, una sola Conosce il colore Dei miei pensieri, La luce dell'animo, La realtà del mio cuore. Mia Madre penetra Le segrete vie Della mia inconsistenza.

Un amore, come ultimo ingrediente. Qualcuno potrebbe essere sdolcinato al punto giusto e dirvi che senza questo ingrediente sarebbe difficile tirare qualcosa fuori dal crogiolo. Io più che altro parlerei di un meccanismo d’ancoraggio, ben evidente negli ultimi versi del componimento: “Mia Madre penetra/ Le segrete vie/ Della mia inconsistenza.” Questa madre che è oggetto d’amore, appare agli occhi del lettore come favolosa creatura senza tempo. Creatura che lega le particelle troppo distanti del poeta e le ancora saldamente alla terra da cui ella stessa lo ha generato.

Il fascino di questo componimento non si cela nella tenerezza di un messaggio d’amore, ma nella disperazione di una muta richiesta d’aiuto, da sempre perpetrata attraverso l’oscurità di certe vie della vita. La richiesta di una mano ferma che guidi e indichi la strada. Il desiderio di trovare quel legame che saldi il movimento casuale e frenetico di ciò che portiamo dentro e riesca a dargli una forma definitiva.

Mutazione questa, si badi bene, che non necessariamente, e anzi quasi mai, ha luogo con la nascita, ma che si ripropone nel corso della vita a più riprese. Un altro tassello di quella “antica ricerca” di cui Matteo Cristiano ci raccontava in Funere mersit acerbo e, perché no, un frammento di quella “vita senza storia” dispiegata in Respirare il tramonto.

Inizio a scorgere la visione dietro alle parole, il puzzle completo dietro ai suoi pezzi disarmonici.

Inizio a capire che le tre poesie di Matteo Cristiano non sono ingredienti diversi per un’unica pozione, ma solo riflessi di una luce cangiante su un unico frammento di vetro nel quale il poeta si specchia e ricerca dietro all’immagine il senso di un’esistenza intera. Di un uomo, di un figlio, di una fibra dell’universo gioiosa di essere minima parte di un tutto immenso.

Il canto di Matteo Cristiano mi sembra allora sempre e solo canto di gioia, anche di fronte al dolore, perché liberazione di un anelito a comprendere quel senso che nessuno di noi riesce davvero a stringere tra le dita, ma che unisce i nostri polpastrelli nel tentativo di aggrapparsi a qualcosa. E chissà se c’è, nel frattempo un buon modo per cercarlo è scrivere poesia.

NOTA BIOGRAFICA

Sono nato a Como, il 6 settembre 1997, il giorno in cui nel 1492 Cristoforo Colombo salpa dalle Canarie per compiere il grande viaggio verso l'ignoto. Una famiglia di umili lavoratori, non benestante ma neppure abbastanza povera da farmi mancare i beni primari; genuina semplicità e un'educazione dedita ai doveri e alle responsabilità. La cornice naturale della Val D'Intelvi mi ha sempre procurato una potente spinta vitalistica che mi ha successivamente permesso di vedere nella natura e nel rapporto con essa quella romantica connessione con l'essenza del mondo, cullandomi tra le onde del lago e innalzandomi sulle vette. Non ho mai eccelso nella moralità e nello studio, ma la sensibilità che mi contraddistingue mi ha permesso di ritagliarmi sovente un affetto particolare da coloro che mi circondavano. Dopo i primi anni di adolescenza turbolenta ed eccessivamente trasgressiva, la bocciatura al secondo anno del Liceo delle Scienze Umane Teresa Ciceri di Como ha procurato una svolta nel mio pensiero. Da lì le lettere e la filosofia hanno iniziato ad invadere ogni spazio di raziocinio nella mia quotidianità, la riflessione morale ed estetica è divenuta la via prediletta per conoscere me stesso e il mondo, cercando di rispondere alle domande sui massimi sistemi che ancora mi costringono alla meditazione. Il piccolo e limitato ambiente nel quale mi muovevo però non mi permetteva quello slancio conoscitivo ed esperienziale che necessitavo per proseguire il mio percorso di crescita, e il mio passato incombeva su di me con pregiudizi che nascondevano l'essenza che andavo manifestando. Dopo la maturità, ho abbandonato la mia casa e le mie montagne per iniziare qualcosa di nuovo, per mettermi in gioco e poter raggiungere lidi che ancora mi erano nascosti. Così mi sono iscritto al corso di Lettere Moderne all'Università di Padova, dove l'arte, la storia e la poesia si coglievano sui marmi consumati e levigati dal tempo. L'erranza irrequieta della mia anima ancora non ha raggiunto una meta, e il sentimento di insignificanza e di smarrimento governa ancora le corde più profonde di me, come traspare dai miei versi, unico luogo spirituale e fisico ove il sentimento immenso di morte che provo può esprimersi.

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