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Recensione al libro "Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-1938" di Antonia Pozzi


Da alcuni anni gli studi, le pubblicazioni, i convegni su Antonia Pozzi, una delle voci più intense e originali della poesia italiana della prima metà del Novecento, si sono moltiplicati. Sono stati prodotti anche tre film-documentario dedicati alla sua breve vita: “Poesia che mi guardi” di Marina Spada, “ Il cielo in me. Vita irrimediabile di una poetessa. Antonia Pozzi (1912-1938)” di Sabrina Bonaiti e Marco Ongania e “Antonia” di Ferdinando Cito Filomarino che uscirà nei prossimi mesi. L’ interesse per la figura della poetessa, morta suicida nel 1938 a soli ventisei anni, è in continua crescita, in Italia e all’estero, e non riguarda solo gli addetti ai lavori, ma un pubblico sempre più vasto e in parte non avvezzo a leggere abitualmente poesie. Un apporto prezioso alla conoscenza di questa figura di donna e poetessa è il libro “Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-1938” (Àncora, 2014) a cura di Graziella Bernabò, studiosa e biografa della Pozzi, e Suor Onorina Dino, responsabile dell’Archivio Pozzi di Pasturo e curatrice delle opere della poetessa. Il volume raccoglie per la prima volta l’epistolario completo di Antonia nell’Archivio di Pasturo, fondamentale per comprendere il vissuto e l’evoluzione della sua poetica e della sua poesia nel contesto storico di Milano, la città dove nacque e visse, e dell’Italia tra gli anni Venti e Trenta. Un periodo drammatico della nostra storia: dall’avvento e affermazione della dittatura fascista all’approssimarsi della Seconda Guerra Mondiale. Tutto ciò emerge velatamente dall’epistolario. Dalle lettere ai familiari e agli amici è possibile ricostruire la vicenda umana della poetessa dall’infanzia spensierata alle esperienze più drammatiche, alle tante incomprensioni da parte delle persone che pure l’amavano, come il padre o erano legate a lei da stima e amicizia, come Vittorio Sereni, Remo Cantoni e Dino Formaggio, fino alla tragica decisione di togliersi la vita. Emergono di volta in volta dall’epistolario i tratti principali della sua personalità: sensibilità, generosità, altruismo, amore per la natura , nelle cui manifestazioni Antonia pare cogliere un respiro cosmico, attenzione ai luoghi e capacità di descrivere con vivezza di stile località, paesaggi e persone incontrate nei numerosi viaggi in Italia e all’estero,a volte sottile ironia nel tratteggiare l’ambiente borghese in cui viveva e nel quale non si riconosceva , grande passione per la montagna e per le scalate che rappresentavano forse la fuga momentanea da un mondo che avvertiva sempre più estraneo e distante. Le lettere sono scritte con grande varietà di registri linguistici: dal tono colloquiale di quelle indirizzate alla madre, al padre e alla Nena, la nonna materna, con la quale Antonia aveva un forte legame affettivo, al tono di forte impatto emotivo delle lettere d’amore, in particolare quelle indirizzate ad Antonio Maria Cervi, il professore di greco e latino di cui la Pozzi si innamorò durante gli anni del ginnasio. Un rapporto reso impossibile dal padre, l’avvocato Roberto Pozzi, contrario al matrimonio della figlia sia per la differenza di età (Antonia aveva diciassette anni, Cervi trentaquattro), sia per l’appartenenza di lui ad un ambiente sociale troppo diverso da quello dell’alta borghesia milanese frequentata dalla famiglia Pozzi. Di notevole interesse sono anche le lettere agli amici, in particolare a Tullio Gandez, poeta e amante della montagna come Antonia. Alcuni passi della corrispondenza tra i due giovani sono importanti per capire come la piena realizzazione di sé come donna e artista poteva manifestarsi solo grazie alla poesia: “ non per astratto ragionamento, ma per un’esperienza che brucia attraverso tutta la mia vita, per una adesione innata, irrevocabile del più profondo essere io credo, Tullio, alla poesia. E vivo della poesia come le vene vivono del sangue”, scrive all’amico in una lettera del 29 gennaio 1933. La progressiva maturazione della sua poetica emerge da una lettera dell’agosto del 1937 a Dino Formaggio, come lei allievo del filosofo Antonio Banfi, nella quale accennava al progetto di un romanzo storico che doveva prendere spunto dalla figura, tenera e forte al contempo, della Nena “(…)non credo ai miracoli, alle improvvisazioni letterarie: credo al lavoro, alla dura fatica di lima e scalpello, alla lotta continua (…) contro l’enfasi, contro l’involuzione, contro l’eccessivo lirismo”. Un libro avvincente, da leggere con attenzione.


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