Simone Savogin è un vincente. E non lo è per il fatto di essere arrivato in televisione, prendendo parte a uno dei programmi più acclamati dal pubblico italiano, Italia’s got talent, dove ha conquistato il quarto posto alla finalissima. Simone Savogin è un vincente perché ha trovato il suo modo di comunicare col mondo e di mostrarsi per quello che è.
Nativo di Como, Simone ha sempre vissuto ad Alserio, dove gli basta aprire la finestra per scorgere quel lago tanto amato da cui, per ora, confessa di non riuscire ad allontanarsi. Artista nel tempo libero, ma anche nella vita professionale, Simone dirige il doppiaggio e l’adattamento di cartoni animati e videogiochi.
La scrittura è un altro grande amore, tirato su anche a suon di musica, in un tentativo di creare un connubio comunicativo al massimo delle sue potenzialità. Per questo motivo dalla sua creatività è nato uno spettacolo dal titolo “Butterfly Effect” che unisce la Slam Poetry di Simone Savogin alla musica di Stefano Fumagalli. Non solo, Simone Savogin ha all’attivo anche un podcast, dal titolo “Questo non è un podcast”, e due libri: “Come farfalla” (Mille Gru, 2018) e “Scriverò finchè avrò voce” (Tre60, 2019).
Nell’attesa di incontrarlo il 5 dicembre alle ore 18:00 presso la Biblioteca Comunale di Como dove si esibirà con il duo Eell Shous, gli abbiamo fatto qualche domanda per farvelo conoscere meglio.
Martina Toppi: Tra musica, in particolare il rap, e poetry slam c’è un fortissimo legame e tu stesso come artista affondi le tue radici anche nel campo musicale. Ti va di raccontarci questo connubio? Insomma, nella tua vita è venuta prima la musica o la scrittura?
Simone Savogin: Se vado all'infanzia non saprei dire quale sia stato il primo amore, ma credo vinca comunque la musica, ricordo nitidamente i primi CD che il mio babbo ha portato a casa. Anche se allora già scrivevo storie con una Olivetti, la musica mi affascinava e catturava di più; con la lettura autonoma, poi, verso gli 11 anni, ho cominciato ad apprezzare maggiormente la scrittura. Non ho mai pensato scisse, le due cose, però, sono forme parallele di comunicazione, ma si permeano e si aiutano. Anche quando scrivo, non riesco a fare a meno di sentire come suoni la parola, la frase e l'insieme. Se a una rilettura non ritrovo il tempo giusto, spesso lascio perdere e getto via. Da giovane pensavo (e ancora un pochino ci credo) che l'inglese fosse una lingua più da canzone, mentre l'italiano più da pagina, crescendo ho imparato quanto potenziale musicale abbia anche l'italiano.
Martina: Da cosa nasce l’ispirazione per te? Ci sono dei momenti in particolare che “accendono la scintilla”?
Simone: Mi è sempre parsa una truffa, questa cosa dell'ispirazione, perché sono pigro e fortunato. Spiego: essendo pigro, farei volentieri nulla a lungo, poi però, spesso la mattina, o sotto la doccia, o appena leggo o ascolto e sento qualcosa di stimolante, mi viene la voglia, la spinta, il senso di scrivere quel qualcosa che sento doveroso, forte e necessario. E ho la fortuna che sia buono, a volte, e che mi venga riconosciuto come buono anche da chi ascolta o legge, quindi questo immeritato apprezzamento per qualcosa per cui ho lavorato poco, mi suona come una truffa.
Martina: La poesia performativa richiede un elevato grado di tecnica, non solo nella scrittura ma anche nell’interpretazione dei pezzi. Hai imparato da solo o hai avuto uno o più maestri?
Simone: Credo che nessuno al mondo nasca "imparato", io men che meno. Ho avuto un sacco di tempo per appassionarmi alla musica e alle parole, mi sono potuto permettere di riascoltare mille volte cd, cassette e video musicali, ho letto e riletto, scritto e riscritto, son potuto andare a teatro e al cinema; ogni singola esposizione a qualcosa di artistico o anche solo vitale, è bagaglio, può esser fonte e maestra. Per quanto riguarda il mio lato attoriale, invece, ho sempre amato il teatro e ho provato a entrare in quel mondo, ma oggi posso dirmi fortunato di non esserci riuscito ai tempi, perché mi è servito a discernere meglio quale sia il tipo di recitazione che mi piace e che spero di "usare" in ciò che faccio.
Martina: Quali progetti hai in serbo per il futuro?
Simone: Tantissimi e nessuno, da buon pigro che sono. Sto portando avanti un podcast sullo slam e vorrei crearne altri su due altri argomenti che mi stanno a cuore, ma per ora tempo e mezzi non me lo permettono; sto scrivendo nuovi testi teatrali per poter offrire un portfolio più ampio in differenti occasioni e ambiti, ho il mio spettacolo in cui porto buona parte dei pezzi contenuti nel libro, uniti in una storia, ne ho uno sulla violenza contro le donne, uno sulla caduta del muro di Berlino (appena scritto e da aggiustare) e due sulla resistenza: il processo a Giancarlo puecher, e una "mostra parlata" sui deportati nei campi di concentramento.
Martina: Quanto è cambiata la tua vita dopo l’esperienza di Italia’s Got Talent?
Simone: Molto, direi. L'esperienza è stata sorprendente, perché non mi aspettavo di arrivare a così tante persone e di venire apprezzato in un contesto che spesso viene definito di basso livello culturale. In realtà ho trovato splendidi riscontri da parte di giovani e non, e questo mi ha permesso di sostenermi con i soli spettacoli e con la scrittura, spero possa continuare così a lungo.
Martina: Oltre alle performance, è possibile assaporare la tua arte anche tramite i libri, ma cosa succede a una poesia pensata per la performance quando viene trasferita su carta e consegnata al lettore? Perde vita o ne acquista una nuova?
Simone: Mi ha sempre affascinato quella cosa dello scrivere convinti di comunicare qualcosa e scoprire che il lettore, il ricevitore, l'ascoltatore o il fruitore, ne trae altri sensi, pone attenzione su cose che si son scritte di getto o senza troppo impegno. E questo accade sempre, sia in performance, che nella scrittura, non c'è differenza. Come non c'è differenza, per me, nello scrivere: anche queste parole, se per me non suonano, le cancello. Non ho mai scisso scrittura da suono, quindi non ho mai scritto "per la performance", perché, in realtà, tutto ciò che scrivo, anche solo nella mia testa, è già performato. Se sulla pagina, poi, ognuno ha più tempo per soffermarsi su parti che nella performance sfuggono, capita mi arrivino nuovi pareri o suggestioni. Ogni cosa vive più vite, anche l'attimo esperienziale della performance non è "prevedibile", così la lettura da pagina scritta, quindi una volta emessa, non sono più io a renderla viva, ma chi ascolta, legge ed esperisce.
Martina: Qual è la piega che sta prendendo la poesia performativa: più performance e meno scrittura, o una serena convivenza dei due elementi?
Simone: Non essendo un grande critico, credo che questa necessità di etichettare o delineare o prevedere per dire di essere stati i primi a intuire, mi è sempre suonata un po' velleitaria. L'arte è liquida, come dovrebbero essere le leggi, l'educazione e le menti delle persone, ogni apporto all'arte la modifica, ogni "oggetto d'arte" influisce su chi ne viene a contatto, quindi ogni produttore d'arte sceglie il proprio mezzo espressivo, lo modifica e lo costruisce producendo. Purtroppo le persone non sono sempre oneste, quindi c'è chi si adatta o finge per riscuotere maggiore successo di pubblico, chi smania per un po' di notorietà, quel che viene fuori da questo processo non mi dà nulla, quindi non lo apprezzo e cerco di produrre qualcosa di valido per contrastarlo. Se una performance nobilita un testo, è qualcosa di essenziale, se un testo chiede e chiama a gran voce una performance, è un peccato non la riceva; il testo è, come in ogni forma d'arte o di sport, uno dei requisiti, dei fondamenti, degli ingredienti che servono per una buona realizzazione, così come la performance: una volta acquisiti i fondamentali, si possono sfruttare per creare qualcosa di più o meno testuale, di più o meno performativo, ma altrettanto valido.
Martina Toppi
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