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La poesia: un modo di popolare la propria solitudine


Avverto la scrittura, in poesia, più vicina all’impressione che all’espressione. Intendo: l’imprimersi, l’incidersi in noi. Ecco, forse la poesia è il “luogo” dell’incisione. E dell’incantamento, anche, dell’incantato, ossia di ciò che non è ancora stato cantato o non lo è stato ancora a sufficienza.

Un grande filosofo, Søren Kierkegaard, nella sua opera La malattia mortale, del 1849, scriveva: «L’uomo è una sintesi dell’infinito e del finito, del temporale e dell’eterno». Mi pare che in questa frase ci sia tutto il necessario per intendere l’esistenza. A questa potente sintesi aggiungerei solo una riflessione: penso che, più di ogni altro, sia il termine “imprevedibile” ad appartenere alla vita. È una condizione, l’imprevedibilità, che si ponga al centro della poesia e io credo della storia. La scrittura e la comprensione della storia, difatti, avvengono tramite “corridoi”, scelti, o che qualcun altro ha scelto per noi. Ma noi abbiamo la facoltà di “reinventarne” almeno in parte i contorni, mediante salti di tempo e nuove associazioni di fatti e idee, portando luce su dettagli e destini prima oscuri.

L’imprevedibile, dunque. Mi sono molto care queste parole che compaiono in Terra del viso, un libro del poeta Milo De Angelis; le ho anche riportate, riformulate, all’interno di un mio libro, Temporali: «Ciò che è accaduto è imprevedibile quanto ciò che avverrà».

La poesia, della vita e della sua imprevedibilità, fa trascrizione, per frammenti e sintesi. Abbiamo a disposizione un setaccio, o un distillato, qualcosa che resta in superficie, qualcosa che pian piano gocciola. Conta il risultato, il concentrato, il succo della storia, personale e universale.

La poesia per me è “popolare”, aspira a parlare a tutti; ed è un modo di popolare (inteso in questo caso come verbo) la propria solitudine. È lo scoccare dell’ora, il momento dello sparo, il sangue, l’istante della voce, un salto improvviso: in essa ricade tutto quanto richiama a noi stessi, ci tocca e ci unisce.

All’università ho studiato storia e la storia è restata per me un riferimento costante, un modo di guardare il presente. Accennavo poco fa al corridoio, nell’interpretazione storica. Percorrendo questi corridoi, che sono il simbolo del transitorio, siamo attratti appunto da qualcosa di lampante (ecco di nuovo il temporale, il lampo, qualcosa di folgorante). Molto della storia, come della vita, lo sappiamo, resta in ombra. Se illuminate, alcune singole vicende diventano esse stesse illuminanti, certe parabole di figure smarrite nel corso del tempo, certi destini. Ciò che è perduto chiede di ritrovare voce, di riunirsi a noi, alla nostra coscienza: ho un pensiero religioso, non lo nego, della storia e per la vita.

«Cerco un’incarnazione nella parola», scriveva una grande poetessa russa, Marina Cvetaeva. Nella mia personale esperienza, la scrittura oggi si lega sempre più alla pittura. Oltre alla famosa formulazione di Orazio, ut pictura poësis (“come nella pittura così nella poesia”), si tratta per me di un’essenziale questione d’inquadramento. Lo sguardo, a mio avviso, ha bisogno di incontrare la materia e di avere una cornice. Nella pratica della pittura ci si affida a un gesto e non alle parole. La pittura, ecco, va oltre il linguaggio, supera il dire o comunque lo amplifica. E poi c’è la magia del disegno (amo il figurativo). A questo proposito, non ho scordato la lezione di Yves Bonnefoy, un grande poeta francese. Mi riferisco a Osservazioni sul disegno e Il disegno e la voce: «Disegno, riflesso del mondo nel vetro, colpito da un sole più lontano del mondo», scrive Bonnefoy. Ecco, credo che in queste parole si concentri un grande insegnamento.

Tornando al nodo vita-storia, e a proposito del religioso, ci sono questi versi di Montale che continuano a inseguirmi (da Satura, la poesia è intitolata A un gesuita moderno): «È neonato anche Dio. A noi di farlo / vivere o farne senza; a noi di uccidere / il tempo perché in lui non è possibile / l’esistenza». Io credo tremando, anzi credo esattamente nel mio tremore, e il pensiero religioso per me si lega soprattutto all’amore, motore dello sconvolgimento più forte e dell’entusiasmo misto a sacrificio entro cui ogni volta ci rinnoviamo.

Per concludere, vorrei dire questo: in poesia, come in ogni arte, occorre saper riconoscere sempre da dove veniamo, riconoscere gli insegnamenti ricevuti. Penso ai maestri, ai poeti che più direttamente mi hanno influenzato e continuano a farlo: penso al Vittorio Sereni più enigmatico, penso all’endecasillabo di Mario Luzi, penso alla voce di Mario Benedetti, penso a Milo De Angelis.

Cristiano Poletti

 

Cristiano Poletti, vincitore della sezione Poesia Edita al “Festival Internazionale di Poesia Europa in versi. La Poesia e la Libertà” con il libro “Temporali” (Marcos y Marcos, 2019). Una sua poesia è inserita nell’antologia “La Poesia e la Libertà. Antologia dei poeti del Festival e del Premio Europa in versi 2020”, edita da IQdB, che raccoglie testi dei poeti che hanno partecipato all’evento e dei vincitori e finalisti delle sezioni di poesia edita e inedita.

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