Michael Harlow vive e lavora come scrittore, editore, e terapeuta junghiano in Central Otago, Alexandra, Nuova Zelanda. Ha pubblicato dieci libri di poesia, tra i quali L’elefante di Giotto (Finalista al Premio Nazionale di libri di Poesia 1991), La figlia di Cassandra ((AUP, 2005, 2006), e recentemente Il cappello blu del conducente del tram (AUP). È stato redattore di poesie a Landfall per una decina d’anni, collega di Katherine Mansfield a Mentone, in Francia e nel 2004 lo Scrittore in Residenza al Randell Cottage. È stato insignito del prestigioso Premio Lauris Edmond Memorial Award for Distinguished Contribution per la poesia della Nuova Zelanda (2014). Nel 2015 ha ottenuto la borsa di studio Beatson per gli scrittori e il Premio Kathleen Grattan per la Poesia. Nel 2016 sarà pubblicato il libro Nothing For It But To Sing.
Qual è la situazione della poesia nel Suo Paese?
Io la leggo così - la scena poetica attuale in Nuova Zelanda mi colpisce come alquanto polarizzata - alcuni direbbero culturalmente schizoide. Da un lato c'è un buon numero di poeti maturi o che stanno maturando, raffinati, che scrivono e pubblicano poesia a livello nazionale e internazionale, raggiungendo un buon livello di eccellenza. È importante notare che non costituiscono un'élite chiusa, che preferisce incastonare le proprie opere e dedicarsi a una pratica poetica alla moda fine a se stessa. La singolarità della voce di questi poeti più maturi e indipendenti si traduce nella libertà di perseguire visioni e percezioni personalissime, cosicché nel loro lavoro esemplificano il coraggio e la fiducia nel linguaggio e nello scrivere poesia. La loro scrittura è caratterizzata dal desiderio di chiedersi perché siamo così misteriosi a noi stessi e al mondo e che cos'è il mondo e che cosa il mondo sta cercando di dirci. La loro intenzione poetica sta nel suscitare domande sulla condizione umana. Sono profondamente interessati alla relazione archetipica tra il reale e l'immaginato, tra la realtà e l'immaginazione. Sono poeti e non bisogna cercare di etichettarli o incapsularli in base ai loro interessi, poeti il cui credo e le cui percezioni e la cui pratica poetica sono quelli degli umanisti esistenziali. Tuttavia non sono sciocchi e la loro poesia è ben fondata sulla realtà esterna come pure sulla realtà interiore dell'immaginazione. Si direbbe che come poeti in genere mostrano una grande stima per ciò che noi chiamiamo ancora l'abilità dello scrivere poesia. Le possibilità musicali della musica che si fa parola in cerca di significato procurano il puro piacere della lettura di questo tipo di opere e la cosa più significativa è il riguardo focale per il suono delle parole, per ciò che infonde vita nel linguaggio e anima il linguaggio della poesia, ciò che rende la poesia lirica la modalità a tutt'oggi dominante. Questo riguardo per il suono delle parole nella casa della poesia e nelle poesie è forse l'aspetto più singolare dei poeti di cui parlo. Questi sono poeti che sanno che le poesie di scoperta vanno sempre al di là e più in profondità (dove "profondo vuol dire autentico"), più in profondità delle poesie di pura invenzione. Le poesie d'invenzione che mancano dell'elemento di scoperta sono spesso incantevoli e intelligenti e talvolta pseudo sagge in ciò che cercano di comunicarci, ma in fondo si tratta di una poesia senza sbocchi, un po' troppo pattinare sulla superficie del linguaggio. Dall'altro lato della linea divisoria c'è una sovrabbondanza di poeti per i quali la corsa alla popolarità e alla poesia popolare è promossa come fine ultimo. Di conseguenza troppo spesso assistiamo ad una proliferazione di poesia avida di qualunque cosa la pratica poetica del momento stia promuovendo. Non c'è nulla di sbagliato nella poesia popolare in sé, ma promuoverla al di là dei suoi limiti e sostenere, sia pure implicitamente, che essa possa diventare una sorta di nuovo standard o misura è una pratica altamente sospetta. Vi è un numero crescente di poeti di vario livello di talento, abilità ed esperienza che sottoscrivono l'istinto del gregge. Si occupano di argomenti legati a un esasperato interesse per l'ego, il che può essere a volte incantevole, a volte addirittura intelligente, ma finisce il più delle volte per essere un reportage poetico troppo incentrato sull'io, troppo preoccupato di ciò che accade sul fronte domestico, sì da risultare inoffensivo o quanto meno noioso. C'è spesso un senso di timore o sospetto nei confronti della poesia che vuole andare più in profondità della semplice superficie degli eventi. Il pattinare sulla superficie del linguaggio e dell'esperienza, talvolta magari con risultati decorativi apprezzabili, è una cosa; la poesia che va in profondità, là dove "profondo vuol dire autentico", è un'altra cosa. Uno degli sviluppi più scoraggianti della pratica poetica è la proliferazione della poesia da blog che ha preso piede qui in Nuova Zelanda come altrove. La poesia da blog potrà anche riuscire occasionalmente a sembrare un po' sofisticata e seria nelle sue intenzioni. Il pretesto di un impulso democratico e la pressione di ciò che è di moda ci costringono ad accettare di essere subissati da un'ondata di poesia che celebra ampiamente un io ipertrofico. È questa una poesia che celebra il quotidiano, il banale, concentrata narcisisticamente su di sé, che crede che tutto il parlare sia poesia, soprattutto se sulla pagina ha l'aspetto della poesia. È la ricerca della celebrità istantanea, la fantasia della celebrità in una lingua che finisce per lo più per essere morta o morente prima ancora di aver colpito la pagina. È il territorio dei bei vestiti, quell'altra versione del blog, una poesia praticata anche da artigiani consolidati, che si risolve talvolta in una sorta di ventriloquismo intelligente, persino incantevole. La poesia non ha bisogno d'essere in prima pagina, d'essere popolare, sebbene possa diventarlo se riesce a rimanere viva a sufficienza e se è costruita abbastanza bene per durare e se ha qualcosa da dire. La poesia ha bisogno, almeno nelle intenzioni, di essere seria, includendo nel serio anche il riso e l'umorismo. La poesia ha bisogno di usare un linguaggio vivo e ricco di immaginazione, aperto alla scoperta delle sue possibilità connotative. Deve sapere che il suono delle parole e la loro musica è la sostanza di ogni buona poesia.
Pensa che la poesia sia uno strumento per avvicinare culture e religioni diverse?
Da sempre la poesia, in qualunque sua forma, è un modo per conversare tra culture - sul piano estetico, sociale e politico. Se la poesia è uno dei "canti della nostra specie", essa è un modo universale per dire qualcosa sul mondo, individualmente e collettivamente. È un modo per attestare e confermare la nostra identità e per testarla a confronto con altre modalità di parola. La poesia è infatti innanzi tutto canto, musica delle parole; poi è tradizionalmente un mezzo con il quale esprimiamo le nostre aspirazioni personali e nazionali. In molte parti del mondo è stata e sarà un'espressione della voce del popolo e dei suoi sogni su ciò che siamo e su dove siamo diretti. E in una certa misura la poesia sarà sempre un atto politico nel senso lato del termine, anche quando non è un atto politico. Ci sono naturalmente eccezioni. La poesia ha bisogno di "andare da qualche parte". Gli uccelli che non volano o non cantano sono in difficoltà, proprio come noi. E chi davvero vorrebbe ingabbiare quell'uccello libero che è la poesia? O silenziare il suo canto? E naturalmente la poesia vuole viaggiare; incessantemente attraversa frontiere, non è così? La poesia cerca le relazioni culturali, il che le consente di essere costantemente informata e rianimata dall'Altro. Vediamo e sentiamo che le parole della poesia non sono mai pienamente felici se rimangono a casa, sole in dialogo solo con se stesse. "Mi vieni a fare visita?" chiese la poesia. "Sì" risposi. "Portami con te" disse la poesia.
La poesia "religiosa" è sempre stata una forma di poesia. Storicamente la poesia è stata strumento di celebrazione di materie spirituali. Per molto tempo è stata considerata una forma di preghiera. La sua graduale e progressiva secolarizzazione rappresenta uno sviluppo inevitabile e necessario, da cui la comunità poetica trae grande beneficio. E tuttavia essa si porta appresso un piccolo bagaglio: si occupa sempre, sia pure in modi diversi, della relazione con la trascendenza. Dai tempi delle prime comunità umane, la poesia, in forma di canto e preghiera, inno e salmo, richiesta e celebrazione, oltre che narrazione, è sempre stata una delle voci della religione. È cosa c'è di più importante delle storie sulla creazione che ci raccontiamo su come siamo giunti all'esistenza? Si tratta di un modo ideale per riconoscere quella realtà spirituale che ci conferisce una qualche identità metafisica. "Sopra e sotto"/"Sopra è come sotto" è un consiglio che ci giunge dal passato. E i poeti greci hanno lavorato per secoli a questa realtà. Per quanto ne sappiamo, non esistono società o culture che non abbiano abbracciato un qualche credo o non abbiano almeno avvertito il bisogno di ciò che è spirituale e divino. Forse a volte si sono anche ribellate contro questa realtà - sebbene questa sia la realtà dell'immaginazione. Ciò che la poesia di tanto in tanto ha da dire a riguardo è notevole. E molti dicono - e tra loro molti poeti - che la poesia nell'espletare il suo ruolo spirituale costruisce l'anima. È questa un'idea che in passato più che grandiosa era scontata. La parola psiche, spesso intesa come sinonimo di anima, era alquanto viva nei pensieri e nel linguaggio dei poeti e dei filosofi, come anche in quello dei pastori e delle flautiste. Non ci sorprende dunque che la poesia sia ancora viva né che sia in contatto con lo spirito della religione.
Il linguaggio oggi si è impoverito: la poesia può ridare valore alla parola?
In merito all'"impoverimento della lingua" e a come la poesia possa contribuire a risollevarne le sorti, non trovo testimonianza migliore delle illuminanti parole della poetessa italiana Laura Garavaglia. Così parla del linguaggio: "La luce delle parole che solo la poesia può ridare al linguaggio: le parole diventano luce". Sebbene si riferisca a un altro contesto, quanto dice è assolutamente vero ed emblematico di ciò che la poesia può fare per fermare il progressivo e incessante decadimento della lingua. Se la poesia sta nutrendo la forza vitale del linguaggio e il suo continuo rinnovamento, le parole di Laura Garavaglia contribuiscono a fare chiarezza sull'espletamento di questo compito, grazie alla cura scrupolosa per la lingua, che è la linfa della poesia. Qualunque altra cosa faccia la poesia - e la buona poesia fa sempre qualcosa - questo fa innanzi tutto: rende intimo tutto ciò che tocca.
La poesia nel mondo dei giovani. Quale futuro?
È difficile prevedere granché sul rapporto tra giovani e poesia, o quali sorprese ci attendano dietro l'angolo. È difficile prevedere il futuro della poesia. Tuttavia si possono formulare delle ipotesi. In un certo senso stiamo parlando del futuro della poesia come lo vediamo. La folle ricerca del successo, l'incontrollato mercantilismo e l'imperante consumismo ci rappresentano tutto, compresa la poesia, come un bene da produrre e commercializzare, comprare e vendere senza prenderne in considerazione la qualità. In questo scenario la poesia diventa un surrogato, un giocatore di scorta. Si ignora volutamene che la poesia un tempo e per molto tempo sia stata considerata un bene comune. Sembra che i "giovani" abbiano narcisisticamente abbracciato il valore commerciale della poesia "istantanea" (come lo zen istantaneo, il successo istantaneo, la celebrità istantanea, ecc.). In breve, sembrerebbe che la poesia si stia adeguando a un concetto di tempo folle, capovolto, che sposta costantemente ogni valore.
La poesia sui social network: qualità o spazzatura?
Non posso dire gran che sulla poesia dei social media, principalmente perché ho scelto di autolimitarmi l'accesso a questa straordinaria ondata di pubblicazioni tecnologiche. Per quanto ne sappia, mi pare una borsa piena di tante cose disparate, che talvolta includono poesia interessante e di qualità. Un certo numero di periodici e riviste che un tempo uscivano solo su carta stampata hanno fatto il loro ingresso nell'arena. Inoltre vi sono pubblicazioni e siti più recenti che si specializzano in poesia, per la maggior parte sperimentale, spesso mediocre. Danno solitamente ampio spazio a poeti giovani, per lo più inediti. L'accesso alla pubblicazione di poesie è quasi universalmente più facile che in passato, il che incoraggia la sperimentazione nella forma. Qui in Nuova Zelanda molti siti e blogs di poeti laureati ospitano poeti di grande talento, oltre a lavori di critica sulle arti. Ho notato che esiste un buon numero di siti che offrono accesso alla poesia del passato, oltre che del presente, spesso già pubblicata in riviste e antologie. D'altro canto, c'è una proliferazione di massa di "poeti da blog", aspiranti poeti, poesie che vorrebbero essere tali e poeti che vorrebbero spacciarsi per tali, tutti in un bel miscuglio. Buona parte di tutto ciò è molto mediocre, poesia spazzatura. Mezzo-sangue del verso, poesie che cercano sinceramente la serietà e una varietà di altri scarabocchiati tentativi. Effusioni che riflettono una cultura narcisistica caratterizzata dalla ricerca della celebrità istantanea, autocongratulazioni finalizzate a far sentir bene chi scrive, un gran guardarsi allo specchio e una notevole incapacità a distinguere i suoni quando si tratterebbe di far cantare un po' la lingua. Beh... Quanto meno si cerca di essere democratici...
(Traduzione di Annarita Tavani)
What is the situation of poetry in your country?
As I read it, the current poetry scene in New Zealand strikes me as rather a polarized one—some might say culturally schizoid. On the one hand, there are a number of mature and maturing, and distinguished poets, who are composing and publishing poetry nationally and internationally, to an acknowledged high level of excellence. It is important to note that they are not caught up in or part of any cosy coterie, who prefer to enshrine and run with largely a self-serving, ‘fashionably’ poetic practice. This singularity of the voice of these largely more mature and independent poets, results in a freedom to pursue individual visions and perceptions; so that in their work they exemplify the courage and the confidence ‘to take a risk, trust your language and make a poem’.
Their writing is characterized by a desire to ask ‘how it is that we are so mysterious to ourselves and to the world?’ And what is the world trying to say back? Their poetic intention is to ask and provoke questions about the human condition. They are intensely interested in the archetypal relationship between the ‘real’ and the ‘imaginal’, between reality and the imagination. They are poets, without trying to ‘brand’ them or straitjacket their interests, whose beliefs and perceptions and practice is that of existential humanists—but they are not woolly-minded, and their poetry is well grounded in external reality as well as the internal reality of the imagination.
You could say, as poets, generally speaking, that they show in individual compositions, a high regard for what we still call the craftsmanship of how the poem is made. The musical possibilities, for word-music in search of meaning, makes for the sheer pleasure of reading this kind of work. And most significantly, a sharply focused regard for the sound of words. The very thing that breathes life into the language, and animates the language of poetry; that which makes the lyric poem the dominant mode.
This regard for the ‘sound of words’ in the house of poetry, and in the poems, is perhaps the most singular aspect of the poets I am talking about. These are poets who know that poems of discovery are always going beyond, and deeper (where ‘deep equals true’), in their insights—than poems of (mere) invention. Poems of ‘invention’ that lack the ‘discovery’ element are often charming and clever and on occasion pseudo-wise in what they are trying to say; but in the finish it’s a dead end for this kind of poetry. Too much skating on the surface of thought and language.
On the other side of the divide, there is a surge of poets for whom the chase for popularity and the ‘popular’poem is favoured and promoted. As a result, we see too often a proliferation of poetry, avid in its pursuit of whatever ‘fashionable’ poetic practice is being promoted at the moment. There is nothing amiss with the ‘popular poem’ per se; but to promote it beyond its limitations, and to argue, even if implicitly, that it becomes some kind of a new standard or measure, is a highly suspect practice. There is a growing number of poets of varying degrees of talent and skill and experience, who subscribe to the herd instinct: running with the self-indulgent and ego-driven, often domestically dominated subject matter--that can be in turn, sometimes charming and even almost clever now and then. But ends up mostly as a poetry reportage, reporting back on matters too often too self-centered, about what’s happening on the domestic front. In the end, mostly inoffensively boring, I think. Something there is about fearing, or at least being over-wary about the poem that wants to go deeper beneath the surface of experiences. Skating on the surface of the language, of experience, with often attractive arabesque flourishes, is one thing; the poem that goes deeper, where ‘deep equals true’, is quite another.
One of the most discouraging developments in poetic practice, is the proliferation of blog poetry that has taken hold here in NZ, as elsewhere indeed. Even blog poetry that manages only occasionally to appear a little sophisticated and serious in its intentions. Under the pretext of a democratic impulse, and the pressure of the ‘fashionable’, we are getting a surfeit of poetry that largely celebrates an inflated ‘I-world’ in the extreme. A kind of egregiously self-indulgent, and narcissistically invested ‘poetry’, that celebrates the banal, appears to believe that all talk is pretty much poetry, especially if it looks like poetry on the page. The quest for ‘instant celebrity’—the celebrity fantasy--, and in a language that ends up mostly dead or dying, even before it hits the page. Or ‘Handsome clothes’ territory, that other version of blog: a poetry, even by some seasoned practitioners, that is alternatively a kind of clever, even charming ventriloquism. Poetry doesn’t need to be foremost, ‘popular’; though it can be if it stays around long enough, and is well enough made to last, and finally has something to say. Rather, it needs at least in its intention to be serious enough, including laughter and wit and humour; and poetry that uses language that is alive and imaginative and open to the discovery of its own connotative possibilities. And a poetry that knows that the sound of words and their music is the heart stuff of a good poem.
Do you think that poetry is an instrument to put in contact different cultures and religions?
In one form or another since its beginning, poetry has always been a way of conducting conversations between cultures—aesthetically, socially and politically. If poetry is one of the ‘songs of our species’, then it is a universal way of saying something about our world, individually, and collectively. It is one way of attesting to and confirming our identity, and testing it against other ways of saying. Because poetry is first and foremost song, the music of words, then traditionally it is a means of expressing our personal and national aspiration. It has been, and still is in many parts of the world, an expression of the voice of the people, and their dreams about Who we are, and where do we go from here? And in some ways poetry is always going to be a political act in the broadest sense of that term, even when it isn’t. There are of course exceptions. Poetry needs ‘to go somewhere’; birds that don’t fly or sing are in trouble (and so are we); and really, who should want to cage the bird-of-poetry? Or silence its song? And, of course poetry naturally wants to travel; it’s always crossing borders, isn’t it? Poetry seeks cultural relationships; one way that it is continually being informed and re-animated by the Other. We can see and hear that the words-of-poetry are never entirely happy to stay-at-home unto themselves. ‘Are you a visitor?, asked the poem. Yes, I answered. Only a visitor? asked the poem. Yes, I answered. Take me with you said the poem.’
There has always been ‘religious’ poetry of one kind or another. Sometimes, appearing in the dress of ‘devotional’ poetry. Poetry historically was instrumental in celebrating matters spiritual. In fact, for untold years poetry was considered a form of prayer. Its gradual and increasing secularisation is an inevitable and a necessary development, from which the community of poetry benefits greatly. And yet it carries a little baggage, by forgetting to remember that poetry is always busy in many ways of seeking a relationship with the transcendent. From the beginning of the settlement of human communities, poetry, largely in the form of song and prayer, anthem and psalm, of petition and celebration, and of story, has always been one of the voices of religion. And what can be more important than the creation stories that we tell about ourselves and how we came into being. It is an ideal means of addressing and acknowledging that spiritual reality that gives us some kind of metaphysical identity. ‘Above and below’ /’Above is as below’ is early counsel. And the Greek poets worked at this for centuries. As far as we know, there have been no societies and cultures that haven’t embraced some kind of belief and need of the spiritual and the numinous, and the divine; and have from time to time also questioned and revolted against this reality—even if it is the reality of the imagination. What poetry has to say from time to time about this, is considerable. And there are those who say, many poets among them, that poetry in its spiritual role is soul-making. An idea that once was more commonplace than it was possibly grandiose. The word psyche, often coterminous with soul, was pretty much alive in the thoughts and talk of poets and philosophers; and shepherds and flute-girls, just about everyone else for a long time. It is no surprise that poetry is still around and from time to time to be in touch with the spirit of religion.
Today the language is becoming impoverished: poetry can give back value to the word?
I can think of no better example at hand with regard to the ‘impoverishment of language’, and what role poetry has in helping to redress the situation, than to cite the very insightful words of the Italian poet, Laura Garavaglia. Here she is speaking about language: “The light of words that only poetry can give back to the language: the words become light.” Although she was speaking in another context, what she is saying is very enlightening. Also, an exemplary example of what the words of a poet can do when confronted with this particular and ongoing challenge to the debasement of language in general. If poetry is in the business of attending to and nurturing the developing life force of a language, and its constant renewal, then what Garavaglia is saying helps to bring clarity to the task at hand; the scrupulous care of the language that is its lifeblood. Whatever else poetry does—and good poetry always does something: it makes intimate everything that it touches.
The poetry in the world of young people. Has it a future?
It’s difficult to predict much about young people and poetry, and what developments and surprises are just around the corner, the future. But, one can speculate. In some ways we are talking about the future of poetry as we know it.
The increasingly frantic search for achievement and success in a culture, and a world driven by a no-holds-barred mercantilism, and rampant consumerism; and where just about everything, including poetry, is a commodity to be hustled and marketed and bought and sold with little regard if any for quality—is the playing field where poetry becomes a substitute (a bit player). Pretty much a total disregard, and wilful ignorance, that poetry was once and for a considerable time, valued as common good. It seems that the ‘young’ have pretty much, narcissistically embraced the commodity value of ‘instant’ poetry (as well as instant zen, instant success, instant even if in a minor key, celebrity, and the like). In short, it looks like poetry might be in line for some pretty ‘crazy’ and topsy-turvy, value shifting time.
The poetry on social networks: quality or rubbish?
I can’t say a great deal about poetry in the social media, largely because by choice I have restricted my access to this rather extraordinary surge of techno-publishing and publications. From what I’ve seen thus far, I think it’s a pretty mixed bag, as it were. I have seen some interesting and quality poetry being featured. A number of online magazines and journals, which were traditionally print-only, have entered the field. As well, there are newer publications and sites that exclusively feature poetry, a good portion of it experimental, or middle-of-the road stuff. They often feature the work of younger, and beginning-to-be published poets. Access to poetry publication, almost everywhere, is more relaxed, easier to achieve, and encouraging innovation in the form. Also, as here in New Zealand, various poet laureate sites/blogs generally have featured some very accomplished poets, and are keen to include writing about the arts. I have noticed that there are a number of sites, where one can access a range of poetry and poets writing throughout history, and from various already published journals and anthologies. On the other hand, there is a proliferation, a mass surge of ‘blog poets’, would-be-poets, and a welter of pretense-poets and pretend poems, all mixed up with each other. A great deal of it is very mediocre, and a greater deal of it pretty rubbishy stuff. Verse-squibs, genuine-seriously-attempt poems, and a variety of other jottings. Outpourings that reflect a narcissistic culture that is characterized by ‘instant’ celebrity-seeking, ‘feel good’ self-congratulations, intense mirror gazing, and a kind of tone deafness when it comes to making language at least sing a little. Still and all, one does try to be a little democratic…