I poeti leggono i poeti: pubblichiamo la presentazione a cura di Andrea Tavernati del poeta italiano Umberto Fiori che parteciperà al Festival Internazionale di Poesia Europa in Versi.
UMBERTO FIORI
Il percorso artistico di Umberto Fiori è particolare e significativo. Chi ha vissuto la stagione più intensa e schierata degli anni ’70 ricorderà i mitici Stormy Six, gruppo storico del rock italiano, tuttora esistente, e i suoi successi, che hanno contraddistinto un’epoca: Stalingrado, Un biglietto del tram… Umberto Fiori ne ha fatto e ne fa parte, come cantante e autore. Un’esperienza che è fondamentale anche per la sua poetica. In seguito ha collaborato con il compositore Luca Francesconi (per il quale ha scritto, tra l’altro, due libretti d’opera) e nel 2009 ha realizzato Sotto gli occhi di tutti, un cd di canzoni tratte dalle sue poesie; del 2013 è il cd-dvd Benvenuti nel ghetto, con gli Stormy Six e Moni Ovadia. Autore anche di saggi e di un romanzo, Umberto Fiori è un artista poliedrico che dedica una particolare attenzione al rapporto tra musica, immagini e testo. Questo filone si raccorda con una poesia fatta di parole, a partire dal suo primo libro, Case, uscito nel 1986, fino a Voi, del 2009, mentre nel 2014 ha pubblicato un Oscar Mondadori che raccoglie tutte le sue poesie dal 1986 al 2014, con un inedito.
Ciò che colpisce subito nella poesia di Umberto Fiori è la sua apparente semplicità. Perché Fiori usa ostinatamente la lingua di tutti i giorni, della quale tuttavia riesce ad impossessarsi mostrando una cifra autentica e riconoscibilissima. Perché il poeta ha saputo creare una propria voce ed un proprio stile, un approccio al dire poetico che esprime una precisa personalità, caratterizzata prima di tutto dalla volontà di raccontare delle storie, attrezzate, pur nel loro minimalismo, con una scena, dei personaggi, un riferimento spazio-temporale e uno svolgimento. Il quale si articola attraverso due momenti, il primo ben ancorato alla quotidianità e il secondo che determina uno scarto netto rispetto alla situazione iniziale; uno scarto non necessariamente scatenato da un evento eccezionale, ma comunque rivelatorio di un significato ulteriore, quanto meno possibile, segnato da «una luce nuova, più vera» (Ritardo).
Ma questo schema “classico” è concretizzato con una costante ricerca di understatement che comincia con una totale spersonalizzazione: l’io viene sistematicamente occultato e anche gli altri personaggi sono ridotti a pure silhouette senza spessore, entità funzionali alla storia. Le indicazioni di tempo e di luogo, sono volutamente vaghe, generiche, potrebbero valere per una pluralità di momenti e di località, di cui chiunque si può impossessare e al tempo stesso nessuno riesce a far propri. Il lessico è altrettanto volutamente attinto dalla medietà più corriva e i verbi sono quasi tutti al presente, a indicare una sorta di atemporalità.
Le storie di Umberto Fiori finiscono così per assomigliare ad apologhi, cioè a scene emblematiche di condizioni assolute, rappresentano dei comportamenti umani tipici nei quali è difficile non ritrovarsi.
La “morale” di questi apologhi è però a doppio taglio. Da una parte la consuetudine del tran-tran quotidiano finisce per creare una acriticità di fronte alla vita, una accettazione passiva di uno stato di fatto di cui non siamo responsabili e forse nemmeno coscienti: vediamo le “cose vere” che ci circondano, ma non le capiamo veramente. D’altro canto proprio ciò detta le premesse per la possibilità di uno scarto imprevisto che volga alla riacquisizione della autenticità del reale e della corrispondenza fra cosa e parola.
Ma perché ciò avvenga è necessario lasciarsi andare, perdere “tutte le bravure”, spogliarsi da se stessi ed aprirsi all’uguaglianza di una umanità ove non esistono privilegi e siamo tutti, nel bene e nel male, sullo stesso piano. Con ciò si ritorna a chiarire la scelta controcorrente e basicamente “antipoetica” della poesia di Umberto Fiori, che rifiuta lo statuto tradizionale della Poesia come quello di un linguaggio altro, rispetto alla quotidianità, ma pretende di insinuarlo come un grimaldello che possa far scattare la “rivelazione” del reale, qualcosa che chiunque può capire, interpretare e far proprio, riconoscendo (finalmente) la presenza di un ”valore poetico” anche nella propria, per quanto feriale, esistenza. “La poesia è questo: esperienza di un oscuro valere, degli abissi della parola, dei suoi limiti, della sua ricchezza, dell’angoscia e della gioia che la muove.”