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Recensione al libro "Numeri e stelle" di Laura Garavaglia (Edizione Ulivo, 2015)


Stupisce sempre un po’ rilevare come la matematica sia, nel nostro Paese, fanalino di coda nei saperi. Pochi dicono di capirla, per questo la scienza dei numeri appare difficile da amare. Eppure non c’è niente di più vicino al mistero della persona di una tale conoscenza, come aveva intuito Pitagora, che fece del logos dei numeri – nel suo misterioso scritto Logos Hièros – l’altra logica dell’esistenza. Dove gli spazi, i silenzi, gli intervalli ritmici introducono alla vita in forma ben più potente, e infera, dionisiaca, di quanto non faccia la consequenzialità dei ragionamenti.Leggere Numeri e stelle (Edizioni L’Ulivo, Balerna), monografia lirica di Laura Garavaglia significa entrare nel mondo dei numeri dalla porta della condizione umana. Non tanto perché l’autrice evoca con sapienti tratti essenziali alcuni protagonisti della matematica, da Pitagora a Fibonacci, da Georg Cantor ad Alan Turing, ma perché ciascuno di questi ritratti è cifra in senso propriamente algebrico e filosofico: ogni vita è, infatti, la risultante di un’individuazione.Spazio e tempo si incontrano in un determinato punto. Siamo in presenza di un’intersezione che, oltre a configurare una presenza nella storia, cioè un corpo personale con propria individualità, si offre come nullpunkt nei termini descritti da Edmund Husserl (non a caso autore di una Filosofia dell’aritmetica, 1891, dedicata Brentano) come punto zero sul mondo. Cos’è la cifra, se non questo, anche sul piano etimologico? I poeti sanno intuire qualcosa dell’essere, come i filosofi e i matematici (si pensi solo a Srinivasa Aiyangar Ramanujan, un protagonista della raccolta).Garavaglia, in poche manciate di versi, consegna la verità dei numeri, in quanto cifre, ovvero enti vuoti di tutto e, in ragione di ciò, aperti alla totalità. Esperienza di cui ebbe folgoranti intuizioni il tedesco Bernhard Riemann (“E sulla retta magica tra zeri e infiniti/ scrivevi l’armonia della natura”, in “La funzione zeta”), geniale mente logica e fine spirito religioso. Due modi di essere all’apparenza antitetici, che la poesia riesce a coniugare. C’è, infatti, un insieme intersezione comune, tra numeri e stelle, tra cifre e condizione umana. Garavaglia lo intuisce proprio a proposito di Riemann. Se la persona si pone nel mondo come punto zero, davanti a sé non può che leggere il mondo come insieme (come non pensare, sul piano logico-filosofico, al Kollektive Verbindung di Husserl?): di punti (“retta”), di suoni (“orchestra”), di intervalli tonali (“musica”).Appare molto interessante che Garavaglia, pur collocandosi – come rileva Gilberto Isella nell’introduzione in un contesto “post newtoniano” – assuma con sensibilità di poeta le interazioni tra pensiero greco classico e prospettive contemporanee. In “Eureka” troviamo Archimede pensare/affermare, attraverso la voce dell’autrice che: “Ogni curva può essere retta”.La contraddizione – così invisa al logos razionale – appare dunque una possibilità (“può”) dal punto di vista del logos dei numeri. Come non pensare ad Einstein e alla teoria dello spazio-tempo curvo, frutto di intersezione, entro uno spazio non lineare e bidimensionale? Ed è proprio alla luce di questo ordine di riflessioni che si comprende come la scelta di parlare di numeri attraverso cifre esistenziali, intrapresa dalla Garavaglia, restituisca in poesia la tridimensionalità della geometria post-euclidea: esperimento suggestivo, anche perché lo sguardo alle stelle è più che mai dovuto. Per Gauss, a scuola “la lavagna era il cielo/ i numeri erano stelle luminose”. Nel caso di Cantor “e la mente saliva/ ogni numero un passo,/ un gradino verso l’infinito”.Attenzione: non è la matematica in sé stessa ad aprire all’universo. Come si evince dalla lettura dei versi di “Numeri e stelle”, sono sempre gli uomini a orientare gli occhi al cielo, in virtù di quello slancio prospettico che appartiene, come ek-stasis, al corpo in quanto nullpunkt. La metafora dell’uscita da sé si dà a vedere in Èvariste Galois per il quale, anche dietro le sbarre “la mente era la scala di cristallo/ verso la teoria dei gruppi”. La medesima patologia interiore viene attribuita a Srinivasa Ramanujan, scombussolato dal “delirio dei numeri”. De-lirare è uscire dal solco tracciato dall’aratro. “Bussola impazzita”, dunque, diviene la vita. Che succede? Dov’è finita l’apparente armonia della matematica? Quello che la vita restituisce è esattamente il logos hièros di Pitagora, la cui logica non è affatto quella di ordinare, perché consegna la verità dell’essere, per sua natura precaria e mobile. Con buona pace della “divina proporzione” o sezione aurea scoperta da Fibonacci e della “pulizia del numero” nella prospettiva del cogito cartesiano, i numeri trovano un senso nel suono, cioè nella successione ritmica che appartiene ai viventi (“Tutto il segreto della serie armonica/ nell’urna colma d’acqua/ percossa dal martello” scrive l’autrice a proposito di Pitagora, in “La musica delle sfere”, nei tre versi indimenticabili della raccolta). Se così stanno le cose, il titolo del libro “Numeri e stelle” esprime una congiunzione essenziale, non una formula paratattica (come invece “Numeri e fiori sulla lavagna grande del giardino”, in “David Hilbert e Hermann Minkowski”): i due elementi sono fatti della stessa materia; non si tratta, perciò, di una quantità che si estende all’infinito. Ma di un ritmo alla cui consonanza è impossibile sottrarsi. Quando, nella “Genesi”, il Creatore contempla il creato, fatto di uno-e-molti (ha-arez, terra e ha-ssamaim, cieli), non si esprime in termini di quantità, ma di qualità. Vede che quanto ha fatto è “bene” o “buono” (il termine ebraico tov copre entrambe le aree semantiche), cioè formula un giudizio di gusto, si esprime in senso estetico.Leggendo le poesie di Garavaglia si ha la sensazione, anche non conoscendo gran che delle biografie dei personaggi evocati, che le esistenze dei più siano state piuttosto travagliate, dense di incomprensioni e affette dalla classica solitudine dei numeri primi, per citare il titolo del romanzo d’esordio di Paolo Giordano. Una domanda si impone. Perché mai i numeri, quando vengono disincarnati dall’esperienza sensibile (in senso kantiano, di spazio e tempo), sono così rischiosi? Pur con differenti caratteristiche – intuizione, logica, deduzione, scoperta – i matematici della raccolta sono esseri geniali. Sul piano antropologico, è come se l’apprensione della verità dei numeri producesse una scissione, ad un livello esistenziale: la follia, l’inquietudine, la schizofrenia cartesiana di res cogitans/res extensa, lo sradicamento descritti in forma lirica da Garavaglia lo testimoniano. La poesia sembra colmare questo solco. Lo fa impiegando gli ingredienti misterici del numero, le sue componenti dionisiache: il ritmo delle sillabe, il suono delle parole con la varietà degli effetti acustici, il tono evocativo. Nel caso della raccolta edita da L’Ulivo, questo effetto si vive alla massima potenza, come amplificato, attraverso l’eco prodotto dalle traduzioni in inglese, rumeno e spagnolo. Provate a far leggere da tre voci diverse, ma in simultanea, la medesima lirica e avrete qualcosa di simile all’esperienza dello straniamento, la strada maestra dei riti orfici.Non credo, però, che sia questa la chiave di lettura più appropriata per esplorare il rapporto poesia/numeri: certo, il ritmo è dinamismo temporale, cioè – aristotelicamente – il numero del movimento secondo il prima e il dopo. La consonanza musicale tra lirica e numeri, che anche Isella avvalora nella chiusa della sua introduzione, ha però un limite: non dà conto di quelle “stelle” che Garavaglia e i suoi personaggi hanno variamente evocato. Probabilmente, per tentare una possibile risposta occorre muovere dalla posizione prospettica della geometria esistenziale. L’uomo, con il suo corpo è nullpunkt, un punto zero, s’è detto. Lo sguardo al cielo è implicato in questa condizione. Non c’è scampo, nemmeno quando si neghi la possibilità della trascendenza. La poesia configura un altro punto di vista, comprensivo di vita e intuizione, di carne e pensiero. La totalità ne è la cifra, come la puntualità prospettica lo è per la persona e per la matematica. In un certo senso, il poeta può stare sulla terra, ma insieme riesce a dare uno sguardo dal cielo, se vuole, se può.E così succede che, quando è il matematico ad avere – come Gauss – l’universo nella mente, “la lavagna” è “cielo” e “i numeri stelle luminose”. Ma, inevitabilmente è il logos concettuale ad imporsi nell’espressione; qui nasce la scissione più dolorosa (e anche la fatica della comprensione matematica).Forse, come Garavaglia intuisce, il vero logos dei numeri non è che poesia.


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